44.5064057,11.3433022 Sottopaesaggio

di Chiara Acri


Cammino da giorni sempre la stessa strada, che forse più che una strada è una via. Se ci fosse qualcuno esperto di strade e di vie sono sicura che si renderebbe conto della differenza; ma io non lo sono. Sono solo una che cammina molto. Non lo faccio né per esercizio fisico né per una spinta dichiaratamente ecologista. Semplicemente non so andare in bici, non ho la patente, e mi faccio molte domande. Mi vergogno un po’ delle prime due cose, ma comunque ci convivo abbastanza bene. Cioè, c’è di peggio, lo riconosco. In realtà poi esistono gli autobus – il cui servizio qui è piuttosto buono – ma mi sento come il protagonista del romanzo che sto leggendo; lui racimola i soldi che la madre gli dà per il biglietto e alla fine del mese si compra sempre un nuovo libro. Certo, oramai a me nessuno mi dà i soldi per l’autobus, però comunque mi sembra un buon risparmio sulle spese mensili, e ogni tanto un libro nuovo riesco a comprarlo anch’io. Come quello che sto leggendo – dove peraltro ho trovato questa storia.

In verità, poi, cambia proprio tutto. Intendo dire in base a come ci si muove. Credo che sia una cosa che si dà molto per scontata, ma non lo è per niente. E se conoscessi un contrario convincente della parola scontata, lo userei, ma nessuno mi convince. Per cui ripeterò soltanto che è una cosa tutt’altro che scontata, perché mi sembra un concetto importante. E perché la gente si muove sempre, lo fa in svariatissimi modi, eppure io credo che nessuno rifletta poi tanto sul mezzo, e sul come. Mi viene più che altro da pensare a quelle lunghe linee che disegnava la mia prof. di geometria sulla lavagna interattiva – quando funzionava – per spiegare la distanza tra due punti. In realtà non si chiamavano linee ma segmenti (mi sgridava sempre) e nel tracciare questo segmento di finto pennarello nero non diceva quasi niente, rappresentava soltanto graficamente quella distanza, nera su sfondo bianco, asettica. Quando la lavagna però non funzionava – e non funzionava quasi mai – lei quella distanza non poteva percorrerla con la penna, così doveva raccontarcela. Ci diceva che la distanza tra due punti A e B è la somma di tutti i punti che stanno nello spazio che separa A da B, che potevano essere potenzialmente infiniti – comunque tantissimi -, prima di arrivare dal punto di partenza alla fine. E allora io mi immaginavo tutti quei puntini, impossibili da vedere alla lavagna e da individuare sparsi dentro il segmento nero, me li immaginavo quasi vivi, muoversi dentro la mia testa l’uno diverso dall’altro, accrescersi, espandersi fino a diventare ben definiti, tanto da poterli descrivere. Tutto a un tratto quello spazio bianco si riempiva, diventava come un paesaggio che si sarebbe potuto quasi fotografare. La geometria in quei momenti mi piaceva, ma ho continuato ad avere sempre voti molto bassi.

Mi torna in mente questo, a distanza di anni, mentre penso che percorrere uno spazio da un qualsiasi punto A ad un qualsiasi punto B, sopra qualsiasi mezzo di trasporto che non preveda il contatto diretto del tuo corpo con il suolo, sia come muoversi dentro quel segmento nero che disegnava la mia prof. con noncuranza alla lavagna. Si va veloci, ma dove sono i puntini? Camminare è raccontarseli; dentro una linea scoprire che ci sono infiniti mondi.

Così, cammino da giorni sempre la stessa strada, che forse più che una strada è una via. Il punto A è la mia residenza universitaria, il punto B è la stazione centrale di Bologna. Tra A e B – oltre la via che prosegue per circa settecento metri – un lungo Sottopassaggio; ed è proprio di lui che io voglio raccontare. Più che sottopassaggio in realtà potrei chiamarlo sotterraneo, perché svolge la funzione di passaggio credo quasi solo per me, nel senso che non ci passa mai nessuno (almeno quando ci passo io), probabilmente pochi ne conoscono perfino l’esistenza. Di fatto le scalette che bisogna scendere per arrivarci sono come in una rientranza dello spazio a cui io non avrei fatto caso se non fosse per google maps, che mi ha suggerito questo percorso. Non è nemmeno uno di quei tipici sottopassaggi – solitamente trafficatissimi – che poi ti conduce ai binari, quelli che costruiscono affinché non si passi in mezzo a loro. No, serve soltanto a tagliare invisibilmente questa parte di città e collegarne i due estremi, passando attraverso la stazione. Anche lui è un segmento, solo che sotterraneo.

Per me è il freddo ventre di bologna. Una bologna con la b minuscola, perché potrebbe essere il sottopassaggio di qualsiasi città del mondo. È questo il bello dei sotterranei. Scendo queste scale che mi sembrano luride, ma forse questo sporco è solo nella mia testa, nel mio aspettarmi che sia sporco, perché chi mai potrebbe immaginarsi le scale di un sottopassaggio pulite, chi mai potrebbe toccare questi passamano di metallo che sono sicura che nessuno proprio nessuno osa farlo, e allora forse sono più puliti di certi angoli di casa mia. A me questo sottopassaggio piace perché mi sembra una sospensione momentanea dalla realtà, da Marzo se è Marzo, dal giorno se è giorno; infatti ci entro e mi sento altrove. Qui la città scompare. E fuori tutto continua come prima ma tu non lo sai, nel senso che potrebbe succedere proprio qualsiasi cosa mentre sei lì giù e tu non lo sai, le macchine continuano a sfrecciare, forse una bici ha investito un passante e non si è nemmeno fermata per chiedergli come sta, qualcuno si tocca le tasche perché pensa di aver perso le monete di resto della spesa ma tanto erano giusto due spiccioli, ti stacchi dal tempo e ti proietti dall’altra parte della città come in un teletrasporto. Però, prima è questo spazio pieno e lunghissimo. Un’infinita corda, come il corridoio sospeso di una casa di tutti che però non figura dentro le planimetrie (se ancora le planimetrie esistessero, se ancora venissero disegnate a mano). E più che di una casa forse sarebbe il corridoio di un gigantesco ospedale di città. Ti fermi senza fermarti perché corri perché hai paura. E non so perché ho paura, se è perché ho paura degli ospedali o perché da poco hanno stuprato monica dentro quel film mentre passava dentro il sottopassaggio (e sono andata avanti sulla barra in basso fregando il tempo ma qui non esistono stratagemmi) o se è perché è uno spazio angusto che sembra la proiezione di sé stesso come in una lunga fila di specchi o è colpa degli anarchici. È un tunnel che mi crea un’inquietudine grigia, che per questo inseguo, nel senso che proprio inseguo, come fosse una cosa che vedo. Come tutto il grigio che c’è qui dentro quest’inquietudine si moltiplica, le si accresce il numero dell’esponente ad ogni altra cosa grigia che tocca e che per conseguenza diretta mi rimbalza sugli occhi che la ingurgitano; e quindi il pavimento grigio, i muri i grigi, i cancelli le scale dietro i cancelli grigi, i binari dei treni sotto i treni grigi, i miei passi grigi e i passamano grigi, grigi gli intarsi sui muri grigi, i soffitti grigi, i cartelloni, lo sfondo grigio dei tabelloni. Alla fine è tutto – soltanto – grigio, al di là di qualsiasi matematica e qualsiasi potenza, e ora capisco che ci entro perché lo temo e forse l’ho sempre saputo, da quando ho letto quella frase che dice lì dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva, che forse non c’entra ma mi torna in mente mentre cammino quasi corro e spero davvero di salvarmi mentre mi chiedo se dovessero mettere una bomba dove la metterebbero, perché penso che se qualcuno dovesse mettere una bomba la nasconderebbe proprio qui ma dove?, e l’hanno detto gli anarchici, l’hanno detto che ci sarà un attentato e allora io sono sicura che sarà questo il luogo ma vi prego non adesso. Sono vigile, vigilissima. La mia voce è un’eco che sono certa che se in fondo ci fosse qualcuno potrebbe sentirmi come se gli stessi sussurrando all’orecchio, e forse qualcuno in fondo c’è, così in fondo che non posso vederlo e se sei tu ti prego non adesso, lo dico proprio tra le labbra, lo dico, ti prego non adesso. E in mezzo a tutto questo grigio solo una linea gialla, che mi sembra come una speranza e quindi la seguo (ma cos’altro potrei fare?) e penso di nuovo alla mia prof. che mi avrebbe sgridato chiamandola così, ma questa è davvero una linea, prof., ed è pure gialla, ogni tanto si cancella, ogni tanto si spezza – forse era un adesivo e la colla si sa, col tempo … – ma poi continua e io ancora la seguo e c’è una piccola discesa dove continuo a camminare, è pulito adesso, ora lo vedo, e mi chiedo chi pulisca, e ci sono i binari 11, i binari 10, intrappolati nei cancelli…

Ma come si può non parlare della luce. Non ho ancora parlato della luce. Di quelle luci al neon dentro rettangoli perfetti, se solo sapessi come si fa potrei calcolarne l’area, forse così capirei quanto occupa la luce dentro il grigio e perché comunque non è abbastanza e prevale sempre lui, una sorta di penombra da reparto psichiatrico, e sì, forse siamo in psichiatria, chiedimi come sta marta tanto non te lo dico, sono l’infermiera o sono marta e qui le luci continuano a vibrare così tanto che a fissarle mi abbaglierei – e allora mi abbaglio -, saranno almeno una trentina di rettangoli disposti lateralmente lungo tutto il corridoio e continuano a vibrare, vibrano come a volerti indicare la via, come se non fosse poi l’unica, proprio tremano come le mani di marta, sdraiata dentro questo tunnel bestiale, che forse no, forse questa volta non si salva. E pensa se ci fosse un blackout istantaneo. Ma tanto quello lo pensi anche fuori quindi no, non pensarlo adesso, procedi e basta, come se non fosse questione di meccanica questo tuo riuscire a vedere, non più di quanto non lo sia sempre. E come si può non parlare dell’odore che si sente entrando qui, che lo scopri soltanto quando ci torni. Come quando si dice odore di ospedale. Ma tutti gli ospedali hanno lo stesso odore? I sottopassaggi secondo me no. Che natura bizzarra che hanno gli odori, mi torna in mente adesso mentre ci penso questo pensiero sugli odori che sono strani, e vale per tutto, vale per le lenzuola di casa tua, vale per tua sorella, vale per gli oggetti tutti di qualsiasi materia, e vale per questo sottopassaggio che odora di ferro. Ma prima non lo sapevi che odorava di ferro, ti sei accorta che è proprio ferro quando ci sei tornata e hai detto sì anche ieri odorava così. Forse del ferro che si scalda perché sopra i binari corrono i treni, e tu li senti tutti anche se non sai dove vanno ma hanno la stessa velocità che arroventa le rotaie e carbonizza le pietrine. E come si fa poi a non parlare del freddo, che c’è freddo come se fosse un nuovo inverno ma che conosco solo io, qui scompaiono tutte le stagioni, forse non sono mai esistite, forse se esistessero gli abitanti dei sottopassaggi loro lo saprebbero e forse esistono ma non si vedono, forse si nascondono quando passa qualcuno e dopo escono oppure si fanno più piccoli e sono qui adesso mentre cammino, magari mi passano tra le gambe e io penso sia una corrente d’aria che arriva dai cancelli, dai cancelli che proteggono dai treni che sfrecciano spostando l’aria. Che poi pare un ossimoro perché secondo me l’aria che spostano è rovente che si potrebbero cuocere i ravioli a vapore che ti piacciono, ma nell’atto di scendere qui si stempera e diventa freddissima, o forse è proprio che siamo sottoterra (infatti nemmeno prendono i telefoni) e entrando qui dentro istantaneamente si ghiaccia perché c’è l’umido dei sottosuoli dei sottoboschi dove crescono i muschi, e se non ci fosse questo pavimento grigio o se solo fosse meno fitto di piastrelle forse tra le fughe comincerebbero a spuntare delle erbe, muschi e licheni come dicevano i libri di scuola alle elementari – tutti aneddoti e fotografie – parlando della vegetazione tipica delle selve e dei microecosistemi che si creano a volte sulle cortecce dei tronchi quando c’è la giusta combinazione di aria e luce, cose del genere. Ma adesso qui di fianco a me è tutto pieno di cancelli; per ogni binario ce n’è uno, come se fossero dei livelli numerati da sbloccare, ma dal maggiore al minore come un procedere a ritroso, quindi dall’11 al 10, dal 9 all’8 e così via fino all’1, in una sorta di cammino di abbandono o liberazione, brama di minimalismo. E non si vede esattamente cosa c’è dietro, mi chiedo se qualcuno li apra mai, mi chiedo chi possieda le chiavi di tutti visto che c’è una toppa per ognuno e chissà se sono uguali o per ogni serratura una chiave diversa, e quindi un mazzo di 11 chiavi che deve anche essere pesante, di certo non uno di quelli che ti puoi agganciare nei passanti dei jeans. Sono dei cancelli altissimi, che in linguistica cognitiva questo sarebbe il prototipo più prototipo di cancello nella teoria del prototipo, lo penso mentre ci passo di fronte, che per tutte le parole ci sono svariate rappresentazioni mentali, ma se dici cancello io penso al cancello del sottopassaggio, che è un cancello di ferro altissimo, su cui vorrei arrampicarmi, che se fossi coraggiosa sì lo farei, per vedere meglio cosa c’è dietro, anzi sopra, anzi più in là. Si vede solo una luce abbagliante che questa volta è la luce che viene dalla stazione, come se il sole risiedesse lì, come se queste sbarre di ferro alto fossero le sbarre della tua cella fredda che dà verso l’esterno, e non si scorge niente ma solo una sensazione di passi, di affastellamenti frenetici di gente, a mucchi, come un’idea di movimento verso qualcosa o verso qualcuno che non ti è dato vedere né sapere, perché al massimo da queste profondità potresti scorgere l’avvicinarsi di due ginocchi contro altri due ginocchi – nell’atto di un abbraccio, di un bacio, di uno schiaffo? – comunque solo due ginocchi qualsiasi senza il resto del corpo persi tra tutti gli altri ginocchi di corsa in questa stazione. E sarebbe la stessa cosa se salissi queste altre scalette, potrei sporgermi un po’di più ma sarebbe poco ciò che vedrei, che comunque non mi basta. Sì, perché c’è come un’altra scala bloccata dal cancello, che mi fa pensare a venezia non so perché, forse certi canali avevano degli scalini abbozzati per scendervi e quando l’acqua era bassa si potevano intravedere, o forse erano i cancelli che restavano a metà tra acqua e non acqua e allora improvvisamente qui per me si potrebbe allagare tutto, e arrampicarmi sarebbe l’unica scelta che avrei, nemmeno questione di coraggio. E tutto ciò che da qui giù ancora non si vede io ora me lo immagino e allora mi immagino i treni che eccome se li sento!, e sento ancora gli annunci e uno dice gridando il treno regionale delle ore 14.50 per Ferrara è in partenza dal binario 9 invece che dal binario 6 piazzale Ovest, e penso che una volta ho letto una storia tristissima di una vecchina che andava sempre in stazione per anni per sentire ancora la voce registrata del marito morto sempre alla stessa ora ogni giorno, ma chissà adesso chi le registra queste voci che mi sembrano tutte voci finte, e un po’ penso che sia meglio così un po’ no, però che sicuramente io non avrei mai avuto il coraggio della vecchina. E ci sono i binari 7 i binari 6, e secondo me quei numeri sono fatti delle stesse lucette elettriche al neon dei rettangoli sopra, anche loro un po’ vibrano un po’ tremano, e ci sono altri annunci sempre con la stessa voce anonima di prima più fredda del freddo che sento, e altre persone che mi immagino correre perché sono in ritardo, altre persone che perderanno il treno e altre come me che sono in anticipo per un treno che non hanno e lo aspettano comunque anche se mica arriva, io penso che ognuno ha la sua destinazione nelle scarpe e gli altri non lo sanno. È sempre così e gli altri non lo sanno. Chissà quale tra tutte queste destinazioni scritte in maiuscolo nei tabelloni degli arrivi e le partenze, leggo qualcosa mentre continuo a camminare, sono sempre troppe, e penso a quanti luoghi ancora non ho visto di questa lunga lista e quindi figurati del mondo: Lecce, Porretta T., (Via Ravenna), Prato C.le, Brennero, Vignola, Imola, Roveri, Ancona, Poggio Rusco, Marzabotto, Salerno, Trieste C.le, Brescia, Parma. E sono luminose queste scritte tra il bianco e il blu, mi riportano a tutta la geografia che non conosco, e ci sono tutte le variazioni delle 14 su scala ascendente, orari che probabilmente cambieranno perché pensa che difficile coordinare una stazione con 26 binari, tu che a malapena coordini due gambe. Sento questi treni ancora sfrecciarmi addosso, sfrecciarmi sopra, sfrecciarmi dentro, e tanti divieti che dicono di non passare, di non oltrepassare, di non fumare, ci sono gli allarmi antifumo, non si può fumare qui. “Che bello papà sei già tornato!” dice il cartellone di una pubblicità, sarebbe bello sì papà incontrarti adesso alla stazione, scendi dal treno che arriva da Cagliari, hai un bagaglio leggero ma lo porto io, e poi altri cancelli chiusi altre toppe serrate, e ancora tutto uguale come in un altro specchio e io che avanzo e sono quasi arrivata alla fine come nel corridoio di un videogioco dove mi dico che ormai ce l’ho quasi fatta, non voltarti, che se mi giro è finita, come se fossi hermes che lo dice a orfeo ma sono anche orfeo, e quindi mi volto ma non succede niente, vedo solo il lungo spazio percorso vuoto di tempo, vuoto di gente, che potrei averlo sognato esattamente così, e invece è reale, tutto di cemento di mattoni di quelle cose grigissime di prima, e ci sono già le scale per uscire da questo scarto di vita che si è creato, che non so quanto esattamente è durato e che cosa esattamente è accaduto – forse tutto questo anche se le parole non mi bastano.

E Bologna adesso mi è tutta qui.

Che capisco solo ora che quella forse era la lunga preparazione a questo grande spettacolo, una specie di red carpet di periferia dove nessuno ti guarda, e la città ti si staglia di fronte così, anche se ancora non è città, ma è la stazione centrale piena di gente, che mi sembra come quando a Milano esci dalla metro gialla sul Duomo e fai una dopo l’altra le scale, e lui ti si costruisce di fronte sempre di più sempre di più, è sempre più bianco è sempre più alto, è sempre più immenso, forse perché tutto intero se non l’hai mai visto ti prenderebbe un male al petto, quindi bisogna guardarlo piano così, dargli il tempo che ti si formi davanti ti si infili negli occhi come a costruirlo mentre lo vedi, farsi sempre nuovo salendo tu dalle scalette della metro gialla – uscita museo del Novecento – che è davvero uno spettacolo raro come questa Bologna che ho di fronte adesso, che non ha duomi, ma questo ammasso di gente è tutta la sua bellezza, come se questo fosse un passaggio obbligato per entrarle dentro se non ci sei mai stato, ma anche se come me oramai ci vivi. E allora il mondo è tutto qui. Da qualsiasi parte lo si voglia vedere è proprio tutto tutto qui. Qui che ci sono mille facce, questo è un posto perfetto per fare un catalogo delle facce della gente, prenderne venti a campione, dire facciamo un esperimento sociale, le facce più strane e nessuno ci fa caso a te perché sono tutti di fretta, c’è la polizia, ci sono persone con i capelli colorati a pois, un sacco di valige rosse. Mentre la voce registrata, sempre quella, quella di prima, freddissima (ma forse adesso un po’di meno), continua a ripetere: Attenzione!, adesso quasi più viva, in questo suo ripetermi: Attenzione!, che quasi me lo dice a fior di labbra, ancora: Attenzione!, che sovrasta gli altri annunci che non sento. Penso soltanto che ha ragione, che ce lo dimentichiamo sempre eppure oggi Bologna me lo grida, che le devo prestare attenzione. E io mi fermo, e vedo solo altre linee in movimento – che non sono segmenti, no prof., questa volta deve ascoltarmi – sono tutte linee dove ogni cosa intorno a me è un puntino e non esistono lavagne, possiamo solo raccontarcelo, che da A a B lo spazio non finisce, che un punto tira l’altro e porta altrove, che da qui poi sono infinite le strade come le combinazioni delle parole al di là della definizione di distanza, e ancora: Attenzione!, che questa voce la vorrei sentire in filodiffusione in tutte le strade del mondo, in tutte le lingue del mondo affinché tutti ma proprio tutti lo capiscano. Quindi: Attenzione! così che poi non ce lo dimentichiamo.
Che alla fine è tutto tutto qui.
E non è mica poco.

(Soprattutto se poi me lo racconti).


Chiara Acri
Nasce sul mare, dove si laurea in Lettere moderne. Vive a Bologna, dove studia Scienze Linguistiche e tutto ciò che abbia a che fare con il linguaggio, la parola e la poesia.