44.456271, 8.900190 Odissea per un corpo

di Letizia Merello


riguarda la tua bestia lanciata nel mondo correre sola sola
(Xavier de Maistre, Viaggio intorno alla mia camera)

Ho ancora gli occhi mezzi chiusi e non mi sono nemmeno lavata la faccia. Mi avvicino alla cassettiera, tiro verso di me la maniglia centrale, cerco a tastoni un paio di calzini e li indosso sui piedi nudi, ancora caldi di letto. Raccolgo dal comodino la scatolina con gli auricolari, li infilo nelle orecchie, aspetto i due suoni che mi confermano l’avvenuto collegamento con il telefono, sul quale imposto un timer di un’ora. Sono tre passi, dal letto fino alla porta della camera, e ne faccio uno e mezzo appoggiata al muro. Il primo tratto di andata, dalla camera alla cucina, sono dieci passi, e lo percorro al buio senza nessuna incertezza: accendo la luce della cucina giusto perché possa farmi un po’ di compagnia, con la sua presenza non troppo diretta.

Il corridoio di casa mia descrive una lunga elle rovesciata: la sua spina dorsale si srotola dalla porta d’ingresso fino all’armadio a muro, in corrispondenza del quale, con una svolta a destra, inizia il lato più corto. Non sono ancora le sei di mattina e, ancora in pigiama, cammino coi calzini direttamente sul pavimento, a passo spedito e leggero; purtroppo quella svolta mi toglie un po’ di slancio e, con l’esperienza, cerco di tagliarla diagonalmente il più possibile, anche se questo rende la strada un po’ più breve di quanto già non lo sia. Dietro le ante dell’armadio a muro sento i rumori dei vicini che tirano su le tapparelle, a volte sbattono una porta, parlano tra loro o al telefono, si preparano a iniziare la loro giornata. Quando la loro porta d’ingresso si chiude per la seconda volta e sento i suoni di lei o lui che inseriscono l’allarme, mi sento legittimata a fare più rumore e a calcare i passi con più energia. Temo di più loro del vicino di sotto, che non si è mai lamentato di nulla: è un vedovo ottantaquattrenne con una vita sociale molto più spumeggiante della mia, e il più delle volte è a dormire dalla sua fidanzata, perché da lei, che vive dall’altra parte della città, pare ci siano le balere migliori.

Quanto agli altri abitanti di casa mia, posso contare sul fatto che il mio compagno abbia un sonno pesantissimo e indossi i tappi alle orecchie tutte le notti, perché sono quasi sempre la prima ad addormentarmi e ho il “vizio” di russare. Sasha, invece, si sveglia con me perché sa che sono io a darle da mangiare – a dire il vero è lei che mi incoraggia a uscire dal letto, il più delle volte, con le fusa o con dei piccoli colpetti in faccia con le zampe. La gatta è un ostacolo costante sul mio percorso, perché la mia camminata segna la fine della pacchia per i pesciolini d’argento. Dopo aver spadroneggiato tutta la notte sulla graniglia di marmo nero, grigio e verde del pavimento del corridoio, perfettamente mimetica per loro, le bestioline iridescenti tornano a nascondersi sotto lo zoccolo d’ardesia appena sentono i miei passi. Sasha mi taglia la strada più volte, nel tentativo di dare la caccia ai ritardatari. Chissà se ci rimane male quando riesce ad acchiapparne uno e del suo corpicino guizzante resta solo una virgola di polvere sotto la sua zampa: direi di no, vista la costanza con cui si dedica a questo hobby e che in qualche modo mi è di ispirazione. In fondo Sasha, come me, insegue un corpo che non esiste.

Quando sono andata per la prima volta dalla mia nutrizionista, il magone ha iniziato a salirmi in gola già mentre aspettavo che mi aprisse la porta, dopo aver suonato il campanello con la targhetta “Dottoressa Valerio”. Il primo ricordo che ha lei, del nostro primo appuntamento, è lo scetticismo scolpito sul mio viso. Noto che ha scelto il verbo “scolpire” e mi stupisce per il contrasto con il mio, di ricordo: mi sono sentita di una consistenza tra il gelatinoso e il liquido quando mi sono seduta su quella poltroncina bassa e scomoda e ho esordito afferrandomi la pancia con le lacrime agli occhi. Da allora sono passati quattro mesi e non sono neanche a un terzo del mio obiettivo di perdita di peso, il che per lei è assolutamente perfetto: mi dice che sono il suo gioiello, le si illuminano gli occhi quando sfoglia il mio diario alimentare e, chiedendomi incredula se mi sento affamata o deprivata, la rassicuro dicendole che no, sto benissimo.

Su un aspetto, però, l’ho vista sempre titubante: quando mi misura la circonferenza col metro da sarta cercando di non toccarmi troppo sento sia il suo imbarazzo che la sua delusione nella goffaggine dei suoi movimenti, poi mi arriva la conferma quando mi dice per l’ennesima volta che non mi muovo abbastanza. Fa parte del mio stile di vita, le spiego, e sinceramente non saprei come muovermi di più senza snaturarlo. Lavoro la maggior parte del tempo da casa, esco di rado, sono fatta così. Forse sarei più motivata se spendessi dei soldi per iscrivermi in palestra, le pavento, e sento già un nodo stringersi alla base della mia spina dorsale per il genuino ribrezzo che mi provoca quest’ultima idea. Se però lei mi invitasse a farlo, probabilmente lo farei, e sicuramente mi farebbe anche bene. Solo, lo farei per le ragioni sbagliate: la goduria di vedere i suoi occhi celesti con le pupille da rettile illuminarsi di gioia e soddisfazione. La contentezza degli altri è sempre stata il mio peccato di gola più grande.

Non conto mai il numero di “vasche” che mi faccio in corridoio tutte le mattine. Preferisco affidarmi al timer del cellulare, e così i pensieri vanno abbastanza da soli, a meno che non decida di ascoltare un audiolibro o un podcast. Mi mancano un paio di puntate de La città dei vivi, ma preferisco gustarmele prima di addormentarmi; il true crime mi rilassa più della meditazione, anche se di certo non mi svuota la testa. Non amo stare da sola col mio silenzio, ma ho scoperto, durante queste mie passeggiate mattutine, che il movimento è un’ottima distrazione, che mi aiuta a levigare i pensieri e, come sassi di fiume, renderli man mano meno ruvidi e pesanti.

Sento ballare la mia carne a ogni appoggio, la sento oscillare tra il sedere e i fianchi e davanti, sotto l’ombelico, dove troneggia quel filone di pane che tante volte sui mezzi pubblici ha fatto alzare in piedi signori anziani in preda al senso di colpa, ancora avvezzi a questo tipo di galanterie, ai quali ho dovuto spiegare con occhi imploranti e un “no, grazie” tra il lusingato e seccato che non ero incinta. Sento questa carne di troppo agitarsi, ricordarmi che c’è anche lei, e la tollero: protetta dalle mura di casa e dalla semioscurità, sono nascosta in un tempo astratto in cui la mia giornata non è ancora iniziata e la mia ciccia, che spinge gli elastici dei vestiti, esiste solo in questo mare semibuio immaginario. Nuoto sotto il pelo di un’acqua nerastra insieme ai pesciolini d’argento, e nessuno mi può vedere mentre tento di avvicinarmi al forziere scintillante che racchiude il corpo che vorrei.

Alle mie obiezioni risibili sul movimento, la nutrizionista ha risposto con la consueta concretezza sbrigativa e mi ha invitata a trovare il mio modo. Un bel problema: niente prescrizioni, niente palestra, niente ordini a cui attenersi e niente endorfine immediate derivanti dal soddisfare le aspettative di qualsiasi essere vivente che non sia io. Un gran bel problema, questo: già mi sono tolta le sigarette, poi il cibo di troppo, ora dovrei togliermi anche la pigrizia. Le spiego, con una risatina ironica che vira verso l’isteria, come l’unica forma di movimento da me contemplata negli ultimi anni sia l’appagamento meccanico del divorare un’intera busta di Gocciole in tre minuti netti. È il mio modo di sfogare la rabbia facendola uscire dai denti, come il veleno che esce dai denti di un serpente. Pensa a come e quando vuoi muoverti tu, mi dice. In pratica mi ha presa per la coda, mi ha bloccato il collo, e poi mi ha detto che sono libera.

Danzo una coreografia leggiadra, infilando più passi possibili anche quando cambio direzione, senza limitarmi a girare su me stessa. Il mio sguardo scivola sulle pareti bianco spento e trova qualche volta la resistenza di un’imperfezione: una goccia in rilievo, un piccolo affossamento nell’intonaco, un punto dove è stato necessario insistere con il pennello. Gli occhi rimbalzano dai ferri della porta d’ingresso all’attaccapanni sempre troppo pieno, dagli interruttori pieni di ditate a quegli strani mezzi cilindri decorati con motivi astratti neri, gialli e arancioni appesi sulle pareti, uno di fronte all’altro, che un’entusiasta me priva di qualsivoglia gusto aveva scelto nove anni prima per rendere meno spoglio l’ingresso alla genovese della sua prima casa. Noto un cerchiolino scuro sopra lo zoccolo, tra l’ardesia e l’inizio della parete. Quello che a prima vista mi sembra un piccolo scarafaggio non si muove quando avvicino il piede, così mi fermo e mi abbasso per capire che cosa sia. Sembra una macchia, ma devo accendere la luce per vederla bene. Gli occhi reagiscono con una certa stizza alla luce fredda dei lampadari del corridoio, poi analizzano quel piccolo rilievo polveroso, con la corolla verde ottanio che sfuma verso l’esterno in un grigio fuliggine. Su una striscia di intonaco che si è gonfiata per l’umidità è sbocciata una minuscola chiazza di muffa. Credevo di averla sterminata a colpi acido ipocloroso: quell’ingorda si era presa quasi tutta la parete di destra della camera e aveva iniziato a mangiarsi piano piano anche i pannelli di compensato degli armadi. Un giorno ho intravisto un’ombra strana che spuntava, sarà una ragnatela, mi sono detta, o polvere, e sono passate settimane prima che andassi a vedere da vicino e mi accorgessi di quella peluria colorata, della stessa consistenza del vello che scintilla sul mio viso quando lo guardo controluce. Questa nuova fioritura mi fa schifo e al contempo sono colpita dalla sua tenacia. Mi chiedo cosa succederebbe se smettessi di fare la specista e lasciassi spazio a questa muffa insolente; forse quella macchia bluastra che mi è uscita sotto l’unghia dell’alluce destro è lei che, zitta zitta, si sta pappando anche me.
Il ribrezzo all’idea di trasportare spore in giro per casa mi vivifica. Mi scrollo di dosso il pensiero, muovendo finalmente anche le spalle, le braccia, le mani, la testa. Sento la circolazione rimettersi in moto, il calore che sale al viso, e la mia passeggiata diventa una marcia militare, scandita dai fiati trionfanti del mio apparato respiratorio. Provo una forzata e paternalistica gratitudine per il mio appartamento, per quanto modesto e squinternato, addirittura percepisco di nuovo l’odore di camelia chimica del profumatore per ambienti attaccato alla presa dietro l’angolo, ormai quasi scarico. Sono grata a questa casa, grata a questo corpo, grata all’opportunità di prendermi cura di me stessa.

Certo, camminare sarebbe la cosa più semplice. La dottoressa mi dà un colpetto gentile sulla spalla come per incoraggiarmi a uscire dalla paralisi in cui lei stessa mi ha gettata dandomi carta bianca sulla mia vita. Ma dovrei uscire apposta, e camminare in mezzo al traffico non è proprio la mia ambizione, ribatto. Sarebbe bello se ci fosse un parco, mi accontenterei anche di un giardinetto pubblico con un po’ di verde, le spiego consapevole di mentire a me stessa, ma quasi certa che a lei manchi questa stessa consapevolezza. Allora il cuoio della sua faccia si rammollisce in una dolcezza che non mi aspettavo, e mi racconta della sua nonna. Sembra una nonna fabbricata per scopi didattici a partire da uno stereotipo che ama cucinare e che porta chemisier con fantasie a fiorellini come la mia, di nonna, da cui ho ereditato polpacci enormi e vene varicose. Uno stereotipo vivente, insomma, a cui in più mangiare piace tanto quanto cucinare, ma lei è sempre stata secca come un ramoscello. Come si spiega questo prodigio? Be’, non solo con tutte le ore passate china nell’orto: la nonna camminava sempre, ogni volta che ne aveva l’occasione. E se ci pensi è un po’ il segreto di tutte le persone della generazione dei nostri nonni, continua la Valerio: se dovevano andare da A a B, molto spesso lo facevano camminando. Non importa dove lo fai: se non ti va di uscire puoi farlo anche in casa. Continua spiegandomi che anche sua nonna l’ha fatto quando è caduta e si è rotta la spalla: voleva mantenersi in movimento senza rischiare di uscire e farsi male di nuovo.

Quindi mi sta dicendo che sono una decrepita nonna, prigioniera del corpaccione di una quarantenne. Praticamente ho già un piede nella fossa e l’altro su una buccia di banana, perché mi è sembrata così naturale, l’idea di camminare dentro casa, e ho sposato subito con entusiasmo questa soluzione, ritenendola perfetta anche per me. Non riesco però a decidermi su cosa determini questa mia vecchiaia che mi fa prendere decisioni da nonna, se il decadimento del mio fisico o la paura irragionevole del mondo fuori, come in una forma di demenza senile.

Qui in corridoio, vicino allo specchio, c’è una foto di me da piccina in montagna. Avrò avuto sei anni: l’aria fiera, un fazzolettone rosso e bianco legato in testa, eccomi immortalata in posa da condottiera, col piede destro su un grande sasso e il pugno sinistro stretto intorno a un bastone con cui ero pronta ad affrontare tutti i lupi che avrei incontrato nel bosco. Ogni volta che colgo la mia immagine di passaggio nello specchio, sembra quasi che la stia seguendo. È lei che conduce l’escursione, con i suoi occhi fiduciosi che guardano verso la destinazione; io caracollo dietro di lei, gli occhi spenti e cerchiati ma un grande ritmo nelle gambe, solo perché ho fretta di uscire da quello specchio, e da quell’associazione. Non sono mai stata una grande camminatrice, neanche quand’ero piccola, e nella maggior parte delle foto ricordo di quelle vacanze in Valle d’Aosta con mamma e papà l’aria di montagna mi conferiva un’aria triste, molto simile alla mia di adesso; in quell’unica foto, invece, c’erano pensieri di lupi da sconfiggere, che mi aspettavano sulla soglia delle loro tane, pronti a balzare; o forse speranze di fragoline di bosco, che avrei raccolto sfilandomi il fazzolettone dalla testa, all’ombra degli abeti e dei larici; magari anche sogni di marmotte da guardare mentre giocavano su un prato. Adesso non sono in contatto con l’obiettivo: come uno zombie, seguo una promessa di felicità indistinta mettendo un passo dietro l’altro, senza troppa convinzione. A differenza dei nonni e delle nonne, non ho un vero punto B che motivi questo spostamento: mi sento un po’ come un robot lavapavimenti programmato per eseguire una pulizia particolarmente approfondita di questa parte del mio appartamento, con un paio di calzini al posto di due efficienti spazzole.

Ho sentito da diverse fonti, più o meno autorevoli, che per perdere peso ci si dovrebbe allenare fino a sudare, o almeno ad avere il fiatone. Io mi sento soltanto un po’ più calda di quando ho iniziato, e dopo una settimana di questa pratica trovo le passeggiate al chiuso abbastanza innocue dal punto di vista del calo ponderale. Provo a mettere maggiore intenzionalità nei miei movimenti, in un tentativo di camminata mindful: premo bene i passi su tutta la pianta del piede, sento il peso spostarsi in un’onda marcata dal tallone alla punta, sento l’energia salire lungo i polpacci, salire alle cosce… e quel tremolìo di carne sballottata. Lo stesso di prima. Il trillo di un campanello tattile impossibile da ignorare. Mi fermo, proprio dove l’armadio al muro e la parete della camera da letto si incontrano formando un angolo. Ho pensato spesso che quello fosse il cuore della casa, e ci ripenso mentre mi rannicchio lì come una sorta di embolo umano, decisa a porre fine a una circolazione ormai stagnante e priva di significato.

La bimba che ero in quella foto non mi può vedere ora: sono sotto la linea del suo orizzonte, raggomitolata in un angolo della nostra casa. Ma io ho impressa nella testa quella sua pancettina che spunta dalla gonnellina di jeans, le braccia paffute, le stesse fossette sulle nocche che ho anche adesso. Tutte cose accettabili, anzi auspicabili, per una bambina di quell’età. Se non fosse che col passare degli anni quella pancetta ha iniziato a fiorire e a sporgere. Credo sia iniziato tutto con l’adolescenza, la stagione delle fioriture per antonomasia: è da lì, infatti, che ho iniziato a trattenerla quando me ne ricordavo (in fondo sono pur sempre una persona pigra), a nasconderla appoggiandoci la borsa davanti quando stavo seduta. Quando ero a casa e nessuno mi vedeva, invece, mi piazzavo davanti allo specchio, di profilo, e la valutavo: cercavo di raccoglierla in un pugno con una mano ma non bastava mai, allora con entrambe afferravo quel ben di Dio che mi ricordava quelle mozzarelle cilindriche del discount che si usano per la pizza. Quante volte l’ho accarezzata sognando di farla sparire senza muovere un dito. Come in quelle pubblicità del gelato, quando fanno vedere la vaschetta che si apre e il cucchiaino che la accarezza la superficie, arandola delicatamente con la punta. Proprio così, con un cucchiaio freddo che mi percorre da sotto l’ombelico fino alla gola e mi pialla, raccoglie in un ricciolo vezzoso tutta quell’abbondanza, poi la fa sparire nella bocca di qualcuno.

Lo spigolo vivo che ho di fronte corrisponde perfettamente all’incavo su cui ora poggia la mia schiena, mentre siedo per terra. Mi guarda impietosamente, per ricordarmi che lo spazio non è infinito e non posso continuare a espandermi. Se occuperò troppo spazio nessuno vorrà starmi vicino. Se ne occuperò troppo poco, si chiederanno che fine ha fatto la grassona gentile che faceva sempre ridere tutti. Se diventerò meno sostanziosa da abbracciare, mia madre mi dirà quanto sono stata brava a dimagrire, poi staccandosi da me aggiungerà che le mancano quelle braccia pienotte, che le ricordavano la forma di sua madre. Chissà poi cosa avrebbero preferito tutte le persone che mi sono state addosso e dentro, tra morbidezza o attrito. Lo spigolo che mi guarda negli occhi sembra avanzare di qualche centimetro, mentre Sasha si strofina contro il mio ginocchio. Non so più se lo sto facendo per me o per qualcun altro, e la seconda ipotesi non mi dà più quel formicolio caldo e piacevole alla bocca dello stomaco.

Ascolto il battito del mio cuore. Non c’è bisogno che metta una mano sul petto per poterlo sentire. Allora sono viva, mi dico, e mi scappa quasi da ridere. Sento le pieghe della pancia contro le cosce ed è una specie di carezza calibrata male, interrotta dal timer del cellulare che mi squilla nelle orecchie e mi fa riaprire gli occhi bruscamente. Mi sembra tutto così vuoto: camminare un’ora tutte le mattine per non arrivare da nessuna parte, sforzarmi per acchiappare per la vita ossuta un corpo che non potrei indossare neanche due minuti senza farlo lievitare, annegare spingendo i polmoni contro l’acqua alla ricerca di un tesoro che si rivela una semplice leggenda.

Non sono disposta a portare avanti con costanza una pantomima di allenamento, seppur con risultati a lungo termine garantiti da una medica. Non sono neanche disposta a uscire alle cinque di mattina e mettermi a correre intorno ai palazzi, noncurante dello smog, con la musica motivante sparata nelle orecchie e il fuoco nei polmoni e sulle cosce. Sono disposta, invece, a piazzarmi davanti allo specchio vicino alla porta d’ingresso, e a voler bene alla bambina che ero e alla donna che sono, allo stesso modo? Ci provo, ma è come poggiare gli occhi su una piastra sfrigolante. Mi volto e sei passi dopo sono davanti alla porta finestra, a guardare l’ombra di un gabbiano che vola sulla facciata del palazzo di fronte, con uno spiffero gelido a farmi sbollire la guancia e il motivo a fiori delle tende stampato dal sole sulla coscia.

Magari non sono capace a correre, ma le mie parole sì. Dovrei lasciare questo cammino a loro. Nel corridoio bianco e rettangolare in cui vivono, completamente disadorno, c’è solo una fessurina che pulsa, piena di vuoto, e poi ci sono loro che continuano a camminare, a mettersi in fila, a comporsi per spingere quel vuoto un po’ più in là, come formiche che agitano le zampette per non annegare in un bicchiere di latte.


Letizia Merello
Ha debuttato nell’iper-testo uscendo da un taglio cesareo nel 1980. Qualche anno dopo ha iniziato a scrivere e non ha più smesso.