44.409561, 8.842962 Navebus

di Irene Rolfini


La prima cosa da sapere – la prima cosa che ho saputo – è che noi, qui, siamo a Ponente. Il Ponente è a sinistra; il Levante a destra. A Ponente ci sono le fabbriche e gli operai; a Levante ci sono le spiagge e i ricchi. In mezzo c’è Genova, ma per questo bisognerà aspettare almeno le medie. Poi c’è il dentro, e il dentro chiaramente è in salita. Quindi ci sono tre direzioni: a sinistra, a destra, e in salita.

Quando avevo otto anni, “La pianta del tè” di Ivano Fossati era una grande hit del salotto, cioè la stanza dello stereo. Lì io e mio padre sedevamo, muti, immobili, ad ascoltare i dischi. Fossati era quello che capivo meno dei tre (De André, De Gregori e Fossati: imparai realmente a distinguerli solo quando li sentii nella stessa canzone), e per questo a volte pensavo che dicesse cose molto intelligenti, a volte che mi prendesse in giro. Diceva che Genova si vede solo dal mare, ed era una frase che non significava nulla, perché dal mare non vedi mica le case e le strade e la gente, cosa vuoi vedere dal mare?

E comunque i gerani piacciono solo ai vecchi.

Il Ponente operaio, si diceva quando ero bambina, e sembrava che le fabbriche fossero state messe a Ponente perché già c’erano gli operai ad aspettarle. E cosa facevate prima? Prima fino a qui c’erano i campi, e al mare andavamo a Cornigliano. Cornigliano: l’Italsider, il grande fumo nero dalla torre bianca e rossa, e sul ponte un puzzo di veleno e uova marce e disprezzo.

In mezzo al Ponente c’è Pegli, che è tipo la Florida, perché i grandi dicevano che quando fossero andati in pensione e avessero finito di pagare il mutuo e crescere i figli avrebbero comprato casa a Pegli; ma lo dicevano per scherzo, figurarsi! chi ce li ha i soldi!, e comunque a Pegli hanno tutti la puzza sotto al naso. Lì c’è il mare, il mare vero: la Passeggiata, il Gelato, e i Bagni. C’erano Pescatori sul molo, speriamo che non se li mangino quei pesci, e le donne che finivano presto di lavorare si fermavano a Pegli a prendere il sole. A bagnarsi no, certo, mica siamo matti: guarda la schiuma, e poi qui è pieno di catrame, là c’è il Porto Petroli.

L’idea di un Porto Petroli mi è sempre piaciuta, innanzitutto per il plurale, perché indica una molteplicità di petrolio, una tale abbondanza e diversificazione che richiede un porto tutto per sé – di cui, come di tutto il resto, non si vedeva nulla: era “dietro”. C’era inoltre qualcosa di misterioso nel Porto Petroli, qualcosa di scabroso, a cui i grandi non accennavano nemmeno: si limitavano a fare quella espressione – le labbra serrate di sbieco, le sopracciglia rapidamente alzate e un breve sbuffo dal naso – che usavano per Un Brutto Male.

All’inizio della passeggiata di Pegli, dopo le giostre, sul primo molo, parte un piccolo traghetto che viaggia diritto da lì al Porto Antico e ritorno. Questo piccolo traghetto fa parte del Trasporto Pubblico Locale, così se sei residente costa quanto una corsa in autobus, e si chiama Navebus, ed è una delle mie cose preferite di questa città.

Ora io faccio la spacchiusa e dico “dopo le giostre, lungo il molo”, ma che sia chiara una cosa: a Genova o le cose le sai, o non le trovi: la strada dove devi passare è sempre nascosta, o dissimulata, o semplicemente non sembra possibile che conduca realmente da qualche parte. Oltre alla sinistra, alla destra e alla salita, c’è un’altra direzione: il dietro.

La prima volta che ho preso il Navebus sono arrivata nel punto indicato da Google Maps un’ora prima dell’orario di partenza, ma affatto convinta che quello lì fosse un posto da dove potesse partire un traghetto ho iniziato a vagare tutt’attorno come una deficiente, non solo lungo la passeggiata a percorrere un secondo e un terzo molo ma persino facendo il giro di un parcheggio perché boh non si sa mai (maniman!); sconfitta, ho addirittura chiesto al tipo delle giostre, che mi ha guardata come se fossi uno stronzo di cane – ossia, nella lingua locale, amabilmente – e mi ha risposto “là”, indicando il mare. Con il passare dei minuti si sono aggiunte altre persone, ugualmente sbandate ma non tutte ugualmente disposte ad ammetterlo, e collettivamente ci siamo aggregati nel punto che ci sembrava più ragionevole dal punto di vista di una barchetta; sbagliavamo, ma a pensarci meglio non aveva senso preoccuparsi perché un traghetto non è che sbuca all’improvviso come un treno da una galleria, lo vedi arrivare e hai tutto il tempo per avvicinarti e archiviare l’infantile incertezza di poco prima e passare alla smania dell’attesa e ai piani per accaparrarti il posto migliore.

Il servizio del Navebus cambia spesso compagnia, per cui il battello che ci viene incontro è una sorpresa: nella bella stagione potrebbe essere un catamarano lungo 40 metri che contiene 400 persone, ma d’inverno potrebbe essere una motonave di 20 metri che ne contiene 150. Metà dei posti sono al chiuso, il resto si distribuisce sul tetto oppure giù tra la poppa e la prua. Come tutti i battelli, ha interni in legno e formica, compresi sedili panche e tavoli; sul tetto, sedili di plastica, concavi, da cinema estivo. Come tutti i battelli, è sempre più rumoroso di quanto ti aspetti e nell’insieme riesce a non sembrare affidabile e sembrare proprio giusto così com’è. Se non ci sei abituata, una barchetta che si stacca dal porto e prende il mare ha qualcosa dell’aereo che si stacca da terra: il primo pensiero è “ma non penso proprio”, poi viene l’orgoglio e la meraviglia per l’ingegno umano e infine la placida fede nella scienza e nella tecnica.
Siamo tutte in gita. Ci sono dei veri turisti: a me sembra veramente strano vedere qui delle famigliole francesi e delle escursioniste tedesche, ma Pegli è oggettivamente un posto carino e soprattutto ospita, su su nel dentro, l’unico campeggio della città. Ci sono soprattutto dei genovesi del Ponente e dell’entroterra che hanno deciso di fare qualcosa di insolito questo sabato pomeriggio; alcune stanno accompagnando a fare un giro per la città i parenti venuti a trovarle, e si vede che sono molto contente della gita in battello che hanno programmato per loro.
Siamo per lo più assiepate nei sedili sul tetto; è giugno, ma io indosso un cappello E una giacca, e gongolo soddisfatta per la mia sopraffina intelligenza. La corsa al posto di sopra è una mossa presto rimpianta: i foresti sottovalutano quanto freddo sia il vento sul mare. Quello che i miei concittadini sottovalutano, invece, è quanto sia monotona e povera di indizi la vista sulla città: nel corso del viaggio li sento chiedersi “ma dove siamo qui?” e “cos’è quello?” “cosa?” “quello!” decine di volte. Mi chiedo se trovino desolante il panorama, se si siano un po’ pentite della gita e se addirittura un po’ di vergognino delle brutture messe in mostra ai parenti di fuori; decido che stare in mare sul tetto di un battello è sempre una figata, e la gita è stata comunque un successo.

Dopo essersi allontanato dalla costa puntando verso il vasto mare all’orizzonte, il Navebus sterza e s’infila nel canale tra la diga foranea e la pista dell’aeroporto. Quasi non abbiamo tempo per sbirciare oltre l’ingresso al porto di Sestri Ponente, e già stiamo superando il Porto Petroli. Non è possibile vederlo da qui, perché è coperto da un molo prima e dalla pista dell’aeroporto dopo; è davvero il segreto meglio custodito di questa parte della città, tanto che prima di mettermi qui a scrivere credevo che le petroliere più grandi non entrassero nel porto ma si fermassero a una piattaforma off shore molto più al largo della nostra rotta. La piattaforma da qui sembra proprio piccola come quelle degli stabilimenti balneari: sembra una boa con una sorta di lampione in mezzo. Invece no: le piattaforme off shore sono tutte fuori uso da almeno 15 anni; sono contenta che le abbiano lasciate lì, fanno molto oilpunk. Insomma anche le navi più grosse si infilano in quel pertugio, poi attraccano a uno dei tre moli e si collegano agli oleodotti del Porto Petroli: benzina, petrolio e diesel spediti direttamente alle raffinerie, i materiali chimici nei punti di stoccaggio e distribuzione (per gli amici: “i depositi”) a terra. I depositi non sono sulla riva, ma a monte: dietro la strada e le case, dietro i binari della stazione, qui dietro.
Da queste parti nei frizzanti anni Ottanta sono esplose delle cose. Nel 1981 una nave cisterna, la Hakuyoh Maru, è stata colpita da un fulmine ed è saltata in aria proiettando lamiere infuocate tutt’attorno; sei i morti, dodici gli ustionati, e quattro le medaglie d’onore ai piloti che riuscirono a portare al largo le altre petroliere prima che esplodessero pure loro. Nel 1987 invece s’incendiarono tre depositi di metanolo della Carmagnani, quelli qui dietro, a 300 metri dalla scuola: quattro i morti, un ferito grave e dodici persone intossicate, per lo più operai della ditta. Queste sono cose che non si sanno, né a Genova né tanto meno a Levante.

Quindi la prima cosa che si vede davvero è l’aeroporto. Il Navebus costeggia la pista, protesa sul mare; quando gli aerei atterrano ti chiedi se la mira del pilota sarà sufficiente a beccare quella strisciolina d’asfalto in mezzo al mare. Che poi la pista non è *così* corta: fa 3 chilometri, invece dei 4 di un aeroporto più grande come Malpensa; ma l’effetto è quello che non sia l’aereo che si stacca da terra, ma la terra che finisce sotto l’aereo.

Lungo l’interminabile pista i passeggeri attorno a me iniziano a manifestare segni di disagio, almeno finché non si vedono gli aerei, che niente da fare è come vedere i cavalli dai finestrini del treno: fanno subito allegria. Un’altra volta sul Navebus mi è passato sopra un aereo appena decollato: è stato come al cinema.
La pista nasconde tutto il porto di Sestri Ponente, e per me è davvero deludente che nemmeno da qui si veda la Fincantieri: uno dei più grandi e importanti cantieri navali del Mediterraneo, oltre 250mila metri quadrati di cantiere navale di cui, dalla città, non si vede un fico secco, se non altissime gru in fondo in fondo, e una massa dei lavoratori che entrano ed escono dai cancelli.
Non so quanti siano lavoratori della Fincantieri: la maggior parte delle tute hanno nomi diversi sulla schiena. Sono per lo più terzisti, non hanno accesso alla mensa, non hanno accesso agli spogliatoi, quindi in pausa pranzo li vedi sempre vestiti da lavoro nei supermercati e nei bar lì attorno.
Ho abitato davanti all’entrata della Fincantieri per oltre un anno; non posso dire nulla del suono dei cantieri, perché si confondeva con quelli dell’Aurelia e della ferrovia lì accanto in un unico ininterrotto rumore di macchinari – se non per il suono della sirena che segna l’inizio e la fine della giornata di lavoro. È proprio una sirena, come nei film sulla guerra quando ci sono gli allarmi antiaerei; senza modulazioni di tono o di volume, si tace improvvisamente come è iniziata, e tutto sommato è piacevole, come possono esserlo le campane delle chiese se è il tuo genere.

Prima c’erano “i trasfertisti” che abitavano nelle poche case dei pochi sestresi che avevano una casa da affittare; a volte erano napoletani, a volte no. Poi ci sono stati “gli extracomunitari” e c’erano più case da affittare. Adesso gli operai della Fincantieri sono spesso bengalesi, e quando prendi l’autobus che dalla stazione di Piazza Principe va a Ponente, e vedi un ragazzo scuro pieno di valigie che si guarda attorno nervosamente e controlla cento volte il cellulare, prima o poi ti chiederà dove si scende per la Fincantieri. E io ne sono contenta, perché c’è lavoro, e queste parole “c’è lavoro” si portano dietro tutta una carovana di significati che proietto generosamente sulle bambine bengalesi che vivono dove ho vissuto. Patetico: lo so. Nessuno è perfetto.

La pista nasconde anche tutto il resto del porto di Sestri Ponente, che è stato riqualificato e ora si chiama “la Marina”. Fa un po’ strano: sembra che in quell’area, dove ci sono i magazzini della TNT e delle Poste e c’era lo stabilimento della Piaggio (facevano gli aerei!), insomma la tipica terra desolata che circonda un aeroporto, ci sia stato fotomontato sopra alla cazzo di cane un pezzo di Porto Antico: le barchette, i condomini moderni, i locali. Ci sono andata poche volte; è sempre pieno di gente. Nel porto di Sestri c’è anche la Lega Navale Sestrese, dove alle elementari ho imparato delle cose sui nodi e i venti e poi a governare un Optimist. La cosa notevole degli Optimist (sono delle barche a vela per bambini) è che chiunque li descriva, che sia Nabokov o Carver, userà la stessa espressione: “vasche da bagno”. Fateci caso.

Dopo tre chilometri e rotti di pista di aeroporto, quello che veramente ci vorrebbe è un bar dentro il Navebus. Finora, a parte l’aereo, è stata un po’ una palla; siamo strette in una corsia di mare, di qui la diga di qua la pista, e troppo lontane dalla costa per vedere alcunché della città. Alcune persone sono scese all’interno borbottando contro il vento, e sono state già rimpiazzate. Noto che i turisti stranieri hanno famiglie meno rumorose delle nostre, ok, ma molto più ingombranti, dato che si portano appresso dei lunghi adolescenti che da noi si sparerebbero piuttosto che andare in vacanza con i genitori con tanto di gita sul battello. Il gruppo più entusiasta è composto da due famiglie di amici: hanno un marcato accento del Lazio e si stanno convincendo che il video che una delle ragazzine deve portare come compito delle vacanze di geografia si potrebbe girare dal battello.
La pista dell’aeroporto finisce e in perfetta continuità con essa inizia l’acciaieria. La differenza la vedi subito perché la pista dell’aeroporto è erbosa, l’acciaieria meno. Siamo tutti molto delusi perché la pista dell’aeroporto si era protesa un sacco sul mare, quindi speravamo che una volta superata ci saremmo avvicinati alla costa. Ma l’acciaieria è la costa.
L’acciaieria si è chiamata Ansaldo, Ilva, Italsider, Riva, Arcelor-Mittal. Io la conosco come Italsider.

I serbatoi, le ciminiere, gli altiforni, i viadotti, i cumuli di carbone, i macchinari, i fuochi, i capannoni, i treni merci: il mare di Cornigliano. C’è sempre stato qualcosa di profondamente sbagliato nell’acciaieria: qualcosa di mostruoso. Il fumo, certo, l’inquinamento, la puzza, ma di più: mostruoso. La bruttezza e la mole e il dominio. Era troppo; era veramente troppo. La fabbrica dove lavorava mio padre era una fabbrica; l’Italsider era il luogo del Male. Però questa è l’Italsider vista dalla città. L’Italsider vista dal mare sembra solo un poco peggio del resto dei depositi, magazzini, stabilimenti più o meno abbandonati che abbiamo visto fin qui. La caratteristica che mi impressiona, da qui, è la sua vastità: da qui capisco che è grande almeno tre volte quanto avessi creduto finora.

Finora non abbiamo visto nulla della città, o meglio non abbiamo visto nulla di riconoscibile come parte reale della città. Da Cornigliano intesa come case, strade e persone, ci separa almeno un chilometro di acciaieria. Ma: adesso. Sul mare sbocca un corso d’acqua, la costa si interrompe, si ritira, e di corsa il nostro sguardo risale chilometri di container e finalmente ecco un pezzettino di Genova: un ponte su cui vediamo autobus e macchine e motorini, quel ponte con il puzzo di uova marce di tanto tempo fa. Ma dietro quel ponte ce n’è un altro.
Sinceramente, io l’ho sempre conosciuto come “il viadotto del Polcevera”. Finché è stato su, non ho mai sentito nessuno nessuno mai ever chiamarlo “Ponte Morandi”. Dalla strada che collega Cornigliano a Sampierdarena, così come dal treno che corre parallelo appena più in alto, se non hai voglia di guardare quello che l’acciaieria ha fatto alla costa, ti volti e guardi la Valpolcevera e di conseguenza il viadotto. Se abiti a Ponente, è facile che a un certo punto della tua vita inizierai a fare quella strada almeno due volte al giorno. Il serbatoio di qua, il viadotto di là; il viadotto di qua, il serbatoio di là.
Poi, un giorno: due monconi. Ma lasciamo stare.
Poi, un giorno: un altro viadotto. Ed è adesso che dall’altoparlante del Navebus esce una voce.
È un membro dell’equipaggio, che sta recitando, con discreta scioltezza, una descrizione accattivante e banalissima dell’industriosa città che ci si dispiega davanti. È stato muto finora, ma adesso ci invita ad ammirare il nuovo ponte San Giorgio, meraviglia dell’ingegneria e già simbolo della rinascita economica di Genova, un ponte che è metafora del legame tra la città del presente e quella del glorioso passato mercantile prima e industriale dopo eccetera. A terra, a Sampierdarena, penserei di essere nel Ponente operaio; sul Navebus vedo bene che è qui che la città delle fabbriche si interseca con la città del porto.

Adesso siamo vicini all’azione, a un centinaio di metri dall’estremità dei grandi moli, lunghi mezzo chilometro; so che si chiamano “ponti” e che lo spazio a riva tra uno e l’altro si chiama “calata” e che “terminal” invece è il nome dell’azienda che gestisce l’arrivo il transito la partenza delle merci; e qui finiscono le cose che so.
Le cose che vedo: gru di diversi colori, tipi e grandezza; alcuni rimorchiatori arancioni; un’infinità di serbatoi di non so cosa, alcuni più stretti su palafitte, altri larghi come palazzetti dello sport; diverse navi cargo tra cui (con un po’ di emozione) la MERAK, che mi è familiare dato che bazzica dalle mie parti e la vedo spesso quando vado a nuotare a Vesima; altre navi che non so cosa facciano e a me sembrano dal malconcio all’abbandonato; portacontainer; container.
I container. Credo ci sia tutta una poetica del container tipo quella del capannone del Nordest, e se non c’è dovrebbe. Anni fa ho ascoltato un audio documentario lunghetto sui container, dall’evocativo titolo: “Containers”. I container sono dei parallelepipedi di metallo di grandezza standard, fatti apposta per essere impilati e accatastati, sollevati, caricati, scaricati, e la loro invenzione fu una rivoluzione, perché prima, una non ci pensa: le robe le spostavano una per una, e si perdeva tempo a decidere come e in che ordine caricarle e a calcolare quante ce ne sarebbero state – e inventariarle! E dopo: l’infrastruttura, il lavoro, lo spazio, le navi e i treni, ogni cosa e persona che ha a che fare con un porto s’è fatta a misura di container, al servizio dei container. Il container stesso è una unità di misura: la portata delle navi si misura in numero di container trasportabili, così come i campi di grano si misurano in ettari e le distanze nei film si misurano in campi di football.
Durante la pandemia ho sentito tanto della bolla dei noli, ossia la crescita vertiginosa del prezzo del trasporto via mare causata dall’insufficienza del numero di container e portacontainer. Per tutta la mia vita, dai finestrini dell’auto ho visto i container fermi, arrugginiti, a stazionare negli appositi depositi lungo le strade della città – non li ho visti in movimento: non li ho visti dentro il porto. Mi ero sempre chiesta perché ce ne fossero così tanti; mi ha scioccata sapere che potessero non essercene abbastanza.

La nostra guida ha preso a spiegarci a grandi linee cosa stiamo guardando, indugiando quando può sui particolari storici: in quel terminal passa la frutta, là passano i prodotti forestali; è qui che alla fine degli anni Sessanta fu costruito il primo terminal container del Mediterraneo; quello è un bacino dove si infilano le navi per essere riparate e poi si alza una diga e si svuota l’acqua così ci si può lavorare – navi di dimensioni ridotte rispetto a quelle più recenti, per cui serviranno bacini più grandi, butta lì il product placement dell’autorità portuale; quello è un rimorchiatore, ossia una nave fatta apposta per accompagnare e trainare e spingere le navi nelle manovre di ingresso e uscita del porto. Lì invece c’è una scritta del Calp che dice “BASTA ARMI AL PORTO DI GENOVA”, ma questo la guida non lo dice.

Si vede la Lanterna. È il momento di iniziare a registrare il video: la ragazzina si alza in piedi, appoggia la schiena alla ringhiera dando le spalle alla città, mentre sua cugina la riprende col cellulare e il resto della compagnia fa il tifo. Dice che Genova è in Liguria ed era una Repubblica Marinara e ha fatto parte del triangolo industriale. La performance è pessima, ma riceve un coro di “bravissima” incrinati solo dalla preoccupazione per la qualità dell’audio: il motore fa un casino bestiale, non so cosa possa venirne fuori, come gli sia venuto in mente di girarlo qui, chissà.
La Lanterna dal mare fa la sua figura. Da terra, da vicino, è una mezza delusione: perché non sembra affatto alta né imponente, e perché si trova in un un’area industriale, tutta svincoli e camion e cemento. Anche qui è nascosta dalle infrastrutture del porto – strutture di acciaio che credo siano carroponti – ma dal mare la si capisce un po’ meglio, la si vede come andrebbe vista. Sarebbe bello essere qui di notte, però.

Per noi qui, la Lanterna è la svolta. Abbiamo le orecchie congelate e sono trenta minuti che guardiamo acciaio e cemento – a sinistra la costa, a destra la diga foranea che ci nasconde il mare – e non vediamo l’ora di vedere qualcosa di bello, non vediamo l’ora di vedere il porto per cui abbiamo pagato il biglietto: con le navi da crociera e i motoscafi e gli yacht e il Porto Antico e la città tutt’attorno, quella roba lì di Fossati dai. Ce lo meritiamo. Il Navebus, in effetti, svolta: vira a destra alla fine dell’area dei depositi della Esso ed entriamo nel golfo.
Passiamo accanto a una portacontainer; non è la prima che vedo, ma è la prima che vedo da vicino, ed è imponente, è uno spettacolo. La
ggiù in fondo le navi passeggeri, anche quelle sono delle belle bestie, ma non importa perché qui vicinissima si alza una nave da crociera, una vera nave da crociera, gesù non è nemmeno una di quelle davvero grandi, è folle.
Si vede un’altra cosa, adesso: Genova.
Eccola, Genova. Inizia con un grattacielo datato dalla forma di una grossa matita che non si è mai chiamato altrimenti che “il Matitone”, poco prima dei traghetti; inizia sotto forma di palazzoni che s’inerpicano su una ripida collina, che dopo le crociere di Stazione Marittima diventano case più piccole, più vecchie, mentre dietro c’è verde, tantissimo verde, il verde di una montagna – piccola, ma montagna. La città si alza e si abbassa, si avvicina e si allontana, si compatta e si disperde, i suoi elementi sempre più eterogenei – e ce n’è tantissima. Finora la città è stata una linea retta che correva parallela alla nostra rotta sul mare: una città orizzontale. Adesso la città ci circonda da tutte le parti, si chiude intorno a noi.

Vorrei che il traghetto rallentasse, e mi lasciasse il tempo per metterla a fuoco, riconoscerla, capire di quale dietro sto guardando il davanti e dare nomi e tracciare confini in questo casino urbanistico a quattro dimensioni. Sembrava così lenta prima questa barchetta, e invece già i vecchi magazzini del cotone (i nuovi Magazzini del Cotone) mi chiudono la vista perché stiamo entrando nel Porto Antico ed è tutto finito.
Fino a un minuto fa la nostra prospettiva è stata diversa, è stata eccezionale; adesso non siamo più al largo, non c’è niente da vedere che non sia normale, per molte familiare. Le più dinamiche si alzano, danno le spalle alla città che si avvicina e scendono la scaletta a poppa per aspettare in coperta che il battello attracchi. Si sta bene qui sotto, al chiuso; mi ero dimenticata di come si stesse bene in un posto riparato dal vento. Mi siedo a un tavolino per questi pochi minuti necessari all’attracco, e mi guardo per bene attorno dato che alla partenza ero corsa su. Qui si sono fermati fin da subito gli anziani e le famiglie con i bambini più piccoli, e mi dico che la prossima volta anche io voglio fermarmi qui sotto, come se fossi una del posto, una che si porta dietro un libro e guarda distrattamente fuori dal finestrino di un battello e sa perfettamente cosa è quel coso e qui dove siamo; una vera genovese, gente di mare con questi cieli sopra il mare.
Bene, è il momento di scendere dal battello con passo malsicuro e intanto stupirsi della coda pazzesca di persone che aspettano di salire per il viaggio in direzione opposta. Quanta gente al Porto Antico; che palle questo posto, che anticlimax dopo un viaggio così. Mi prendo il tempo di accendere la sigaretta per realizzare che ora che sono a Genova non ho niente da fare, alla fin fine. Così mi giro a ponente e inizio a camminare verso casa.


Irene Rolfini
Nata a Genova nel 1979 e su internet nel 1998. Stancacervelli. Per lo più leggo.