39.919235, 8.583068 Messa in essere

di Martino Pinna


Esco di casa dalla porta della cucina, ma ho dimenticato qualcosa, il piede destro è già fuori, l’altro resta fermo, come il piede perno del basket. Con il piede destro, quello fuori, potrei muovermi su tutta la superficie dello scalino, forse perfino scendere di sotto, addirittura andare via e fare una passeggiata, fregandomene del resto del corpo, ma il sinistro non vuole e diventa l’asse immobile dei miei spostamenti. Non sono né dentro, né fuori. Ho dimenticato le chiavi di casa? No, perché sto uscendo dalla porta di cucina. Allora ho dimenticato il telefono? Infilo la mano in tasca, mi palpo come nelle perquisizioni e ho la conferma: non ho il telefono. Me lo porto dietro quando esco perché a volte faccio fotografie alle cose che incontro. Sempre tenendo il piede sinistro come piede perno allungo il braccio fino al tavolo in legno della cucina, un bel tavolo antico, prendo il telefono, lo metto in tasca e stacco il piede da terra. Ho compiuto un passo, sono fuori. Chiudo la porta e uno spostamento accelerato mi porta trenta metri avanti e due anni indietro.

Sono qua, poco più in là, in un’altra stagione, quando il glicine si stava mangiando la casa. Gli operai comunali avevano appena tagliato l’erba alta di fine aprile o primi di maggio, non ricordo più. Era metà erba e metà plastica, con il decespugliatore succede così, il prato delle cunette e la plastica diventano come coriandoli. Ho scattato una foto.

Questa plastica è impossibile da raccogliere, credo. In realtà conosco persone che lo fanno. Lo chiedo ai miei amici Enrico ed Elisa, che hanno l’abitudine di raccogliere i rifiuti. Enrico, che ama fare grafici per tutto, mi mostra un grafico sulla loro operazione di raccolta dei rifiuti a Salsomaggiore, dove vivono. Mi spiega che tutto è iniziato da piccolo. Stava camminando a Tabiano Terme con suo padre, ha mangiato una cicca, crede una Big Bubble, e ha buttato la carta a terra. Suo padre l’ha sgridato in un modo che Enrico si ricorda ancora, e per lui fu come una scossa. E poi una volta, mi dice Enrico, molti anni dopo, sulla spiaggia, mi pare quella di Orosei, insieme trovammo un monitor che portammo al cassonetto. Un monitor in spiaggia, incredibile che io abbia dimenticato un’immagine così. Però una volta ho trovato un monitor Olivetti in uno stagno. Negli anni il fastidio di Enrico per i rifiuti è aumentato finché si è messo a raccoglierli.

Da una parte ci sono i rifiuti che Enrico raccoglie quando cammina per strada e senza sforzo, sta pensando ad altro, però li vede e li butta via, ci sono tanti bidoni e l’atto di raccogliere non porta ad eccessive deviazioni dal percorso. Mi spiega di aver provato a tracciare questo tipo di raccolta per capire l’entità in un anno, ad esempio, ma ha lasciato perdere. L’alternativa invece sono vere e proprie spedizioni mirate: uscire di casa per raccogliere. Enrico e di solito anche sua moglie Elisa e la figlia, prende il bastone raccogli tutto, quello con la manina per raccogliere la spazzatura, due o tre sacchetti e scelgo la zona, mi spiega Enrico.

Ha un file dove traccia quante buste ogni giorno, settimana, mese ha riempito. Non c’è solo plastica, c’è spazzatura in generale. Una cosa che gli dà grande soddisfazione solo le pile: quando trova le pile in giro Enrico è veramente felice, perché le pile sono pericolose. Quest’anno per ora ne ha trovato una decina, le tiene a casa e quando ne ha un po’ va a portarle nell’apposito raccoglitore. Il fatto di togliere dalla falda il piombo gli dà molta soddisfazione. All’inizio queste spedizioni toglievano tempo alla pulizia della casa. Enrico stava esagerando. Era strano vedere il vialetto fuori di casa più pulito dell’interno della casa, mi dice Emnrico. Quindi si è dato una calmata. Lo fa sempre appena può, a volte da solo, a volte con bambina e moglie o con chiunque si trovi. Gli oggetti che trova di più sono in assoluto gli scontrini, poi pacchetti di sigarette e sigarette. I mozziconi sono talmente tanti che a volte rinuncia a raccoglierli. Poi imballaggi di qualsiasi tipo ma soprattutto quelli alimentari, bottiglie, lattine, scatole del prosciutto, scatole della pizza, alcune lasciate dalle persone sul posto, magari a fianco a una panchina, alcune sono cose che svolazzano e chissà da dove vengono. Quando possibile raccoglie anche i coriandoli di plastica, quelli che richiedono abnegazione, pazienza, sacrificio, perché la sua la considera anche un’attività zen, quindi non finalizzata a un obiettivo, alla quantità, ma un’attività che ha come scopo l’attività stessa. In particolare raccogliere quei minuscoli pezzi di plastica generati dalla lama del decespugliatore diventa anche un gioco di destrezza, quindi anche divertente.

Di nuovo ho un piede fermo e l’altro che mi può portare ovunque: sono qua, nel Monferrato, a guardare quei coriandoli di plastica indistinguibili dai petali dei fiori, che Enrico raccoglie uno a uno come un maestro zen, e penso che potrebbe ricomporli e passare dalla plastica all’ikebana, l’arte dei fiori. Io non ho quella pazienza: la vorrei, ma non ce l’ho, però un giorno li raccolgo anche io. A sinistra la strada è in salita, a destra è in discesa, ma a me poco importa, sto al centro e sono fermo. Una volta a Cagliari ho conosciuto un signore in un minuscolo giardinetto di fronte a una casa di riposo. Il giardinetto, e la casa di riposo, si trovavano a metà di una lunga strada di una delle tante colline della città. Il vecchio, che indossava una vestaglia a trama scozzese e aveva il viso cadente e gli occhi un po’ disperati, mi spiegò il suo problema: aveva voglia di camminare, ma se andava su, non aveva le forze, perché la salita era dura, e se andava nella direzione opposta, in discesa, poi non sarebbe riuscito a tornare su, sempre per mancanza di energia. Quindi stava a metà, in quel piccolo cortile, come i naufraghi delle vignette della Settimana Enigmistica. Una piccola parentesi: mia nonna ha letto e completato tutti i giochi della Settimana Enigmistica per tutta la vita, senza mai saltare un numero, e poi è morta. Come eredità ci ha lasciato un mucchio di numeri completati e anche alcuni dove non completava i giochi più facili o i cruciverba di livello troppo basso per lei. Usava la penna rossa. Sfogliarli è come entrare nella sua mente. Vedere cosa riusciva a risolvere è sorprendente, ed è divertente vedere le poche cose che non riusciva a fare. Era un fenomeno con i rebus, anche con quelli più impossibili. Quando è morta in ospedale abbiamo trovato i numeri della Settimana che stava facendo fino all’ultimo, con la stessa grafia usata per una bella lettera che ha lasciato a noi parenti.

Ma tornando al vecchio bloccato a metà di una discesa/salita: gli proposi, avendo l’auto parcheggiata là vicino, di andare a prenderlo e riportarlo su, dopo la passeggiata verso il basso, oppure di portarlo su, ma lui disse di no. Provai anche a insistere, ma il vecchio era rassegnato a quella situazione. E poi, anche se l’avessi fatto, domani che si faceva? Lo stesso spostamento di prima, come spinto da un forte vento alle spalle, mi porta in cima a quella collina, qualche anno dopo. Sono con una ragazza di cui sono innamorato, stiamo passeggiando, forse mano nella mano. A ogni nostro passo il tempo cambia. Sole del tramonto. Sole con nuvole. Pioggia. Cielo plumbeo. Mezzogiorno estivo. Vento di maggio. Notte con luna piena. Notte d’estate. Vento di novembre. Pioggia Scrosciante. Pioggerella. Sole di fine settembre. Sono tutte giornate diverse. Abbiamo fatto molte volte quella strada, era una passeggiata che ci piaceva. Ora non ci amiamo più, nelle ultime immagini cammino su quella strada sulla collina della città da solo, anni dopo, fumo. Lei ora abita in Svizzera, si trova bene e siamo amici. A volte mi manda fotografie su com’è il tempo, di solito quando è nuvoloso o quando c’è la neve. Butto a terra la sigaretta  – scusa Enrico – e mi lancio dalla collina, volo verso il basso leggero, come un aliante, plano sul quartiere La Marina, sulle quattro corsie di Via Roma, fino al porto, e là mi imbarco, sulla Tirrenia. Destinazione: il Continente, Cagliari Livorno, faccio le autostrade, ma anche le strade statali, due le mie preferite: la SS9, la via Emilia, e la FI-PI-LI la Firenze Pisa Livorno. Sulla seconda ho preso un sacco di multe, anche dopo che avevo imparato a memoria dove si trovavano gli autovelox. Non riuscivo comunque a rallentare. Sull’A1 ho vissuto in diretta il momento in cui hanno aperto la Variante di Valico e le due strade si sono divise nella direttissima e nella panoramica, nome furbo ma anche vero, strada molto bella soprattutto in autunno e inverno, quasi sempre nebbiosa e nevosa. L’A1 è stata “messa in essere”. La messa in essere non fa parte della liturgia ufficiale, ma quasi. La messa (in essere) avvenne il primo ottobre del 1964 con l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro. I ponti dell’A1 hanno tutti nomi evocativi: Setta, Sambro, Biscione, Poggettone, Pecora Vecchia. E poi il mio preferito: Aglio, quello presso Barberino del Mugello, inaugurato nel 1960. Il nome, Aglio, viene dal torrente che valica. Non fu facile da costruire, si lavorava di giorno e di notte e sulla sua messa in essere venne realizzato un film nel 1960 “Viadotto sull’Aglio”. Sono morti diversi operai durante la costruzione di questo capolavoro ingegneristico. E’ un grande viadotto ad arco in calcestruzzo armato. Alto novanta metri e lungo 439. Sotto ci sono alberi e una stradina, oltre al già citato torrente. Un’opera ardita, difficile da realizzare e ancora oggi di incredibile leggerezza ed eleganza, che però non vede quasi nessuno, dato che ci passiamo sopra con la macchina. Questa è una fotografia scattata durante la realizzazione:

Mi addormento e sono sotto il ponte di Oristano: in realtà si tratta di due ponti paralleli, quello chiamato vecchio, di costruzione fascista, e quello chiamato nuovo, in opposizione al vecchio ma credo realizzato comunque durante un governo di destra, dato che qua come altrove i fascisti non sono mai andati a casa. Sono stato molte volte sotto questo ponte da sveglio, per tutta la mia vita. Sopra l’ho percorso in macchina, in bicicletta, a piedi, di notte e di giorno. Lo chiamano tutti ponte vecchio, o anche Ponti Mannu, ponte grande. Per gli stradari è la strada provinciale 54bis. Sui pilastri un tempo c’erano i fasci littori, oggi sono rimaste sono le indicazioni della realizzazione, anno 1937. Sotto, appena scendo, tra le spighe verdi del grano, trovo delle palme che non ricordavo, inaspettate e molto belle, tanto che scatto una foto di questo strano paesaggio liminale tra il parcheggio del centro commerciale e la campagna. 

Nel 1998 d.C. ero qua sotto con i miei amici e delle bombolette rubate in un negozio di fai da te. Per rubarle usavamo una tecnica semplice ed efficace: uno distraeva il negoziante portandolo dall’altra parte del negozio – bastava dire “mio padre mi ha detto di prendere dei listelli da dodici”, qualcosa così – mentre noialtri riuscivamo a riempire lo zaino e scappare subito fuori, per poi andare sotto al ponte a disegnare. Di alcune bombolette modificavamo i tappini usando del fil di ferro scaldato con l’accendino, con lo scopo di tracciare linee più grandi. Oggi quelle mie scritte sono ancora lì, sotto decine di strati di altre scritte, e in futuro, facendo una stratigrafia, scopriranno cosa avevo disegnato, perché io non me lo ricordo, forse avevo scritto Cloro, di sicuro in stile Phase 2, writer newyorkese che all’epoca veneravo, imitando goffamente il suo stile bubble che scimmiottavano un po’ tutti in tutto il mondo. Nel 2023 d.C. procedo oltre, si sentono fortissime le macchine che passano sopra la mia testa, sia sul ponte vecchio sia su quello nuovo. In estate questo è un posto da senzatetto o tossici, trovo qualche fialetta di metadone, di rivotril e qualche cartone di tavernello, ma con la brutta stagione è scomodo fare i tossici qua. Rovi altissimi, erba ovunque, molto fango e persino la possibilità che il fiume, che è poco più avanti, esondi e ti uccida, quindi non incontro nessun essere umano, solo le tracce, come questa bottiglietta di Metadone.

Sotto i piloni del ponte nuovo decine e decine di pneumatici ammucchiati. C’è un punto preciso dove si sente un fortissimo tu-tum ogni volta che passano le macchine e i camion. Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum. Il traffico ha una certa frequenza regolare a quest’ora e dunque diventa un ritmo riconoscibile. Tu-tum. Verrebbe da ballare. Tu-tum. Per terra cromatismi felici, il giallo delle palme secche e leggermente umide e scarpe e tute da ginnastica celesti, erba verdissima che corre negli interstizi del ponte, licheni gialli che si confondono nel giallo sbiadito di alcuni graffiti. Sotto una delle arcate del ponte spunta un gigantesco fico alla ricerca di sole. Moltissime, lungo il sentiero parallelo al ponte, le piante, principalmente parietaria, trifogli e borragine, qua chiamata spesso “pan’e sodrau”, pane del soldato, perché era una delle tante piante che si potevano mangiare in tempi magri ma anche meno magri, dato che ricordo di averla mangiata tante volte pure io quando ero piccolo negli anni Ottanta.

Poco più avanti qualcuno ha scritto sul muro: non me ne frega un cazzo. E va bene, ti posso capire. Il sentiero arriva al fiume e il rumore delle macchine si confonde con quello dell’acqua, che qua procede più tumultuosa che in altri punti, dove invece è stagnante, unendosi in un unico suono, assieme a quello delle canne al vento proveniente dall’altra sponda del fiume. Resto in piedi ad ascoltarlo qualche secondo, seduto no perché è tutto bagnato, e veramente dopo un po’ macchine, canne e acqua sono indistinguibili: non c’è separazione fra le cose del cosmo, il suono è uno solo che comprende tutti i suoni, unico e molteplice.

Riapro gli occhi, cosa vedo: un muro alto e fittissimo di canne, quelle che ascoltavo, e un muro vero, quello del ponte, fatto di mattoni grigi con un murales colpito per metà dalla luce del sole. Mi avvicino all’acqua il più possibile, noto pezzi di plastica bloccata da sottili fusti di piante palustri, sembrano barche incagliate, viene voglia di smuoverle con un colpetto in modo da liberarle così che possano seguire la corrente del fiume e finire nella Grande Plastica. Qua almeno una volta all’anno il fiume esonda e arriva fino agli argini, mescolando tutti i rifiuti, poi l’acqua si ritrae, e alcuni rifiuti restano bloccati, come buttati a caso su una tela, altri riprendono il corso del fiume e vanno verso la foce, che non è lontana, saranno due o tre chilometri, per finire dunque in mare. 

Nello stesso punto dei pezzetti di plastica incagliati, c’è una lattina di Best Bräu, la birra dell’Eurospin, sembra un galeone spagnolo insabbiato nel fondale della baia di Vigo. In tedesco significa semplicemente “Migliore Birra”. Della Best Bräu mi ha sempre colpito la campagna marketing e la comunicazione basata sulle sue origini misteriose. Il nome stesso allude a birre non italiane, ma non si sa di dove. Sembra una storica birra mitteleuropea, con un logo che ricorda un araldo asburgico, uno strano leone con una corona in testa.  I claim sono sempre un invito all’apologia dell’alcolismo. “Ho passato una serata meravigliosa. Eravamo io e la mia Best Bräu”, “Non puoi comprarti la felicità, ma puoi comprarti una Best Bräu”, “A Best Bräu piace la compagnia e l’aria aperta. Ma ogni tanto, un po’ di tv anche in solitaria ci sta”. E poi il mio preferito, per la sua bizzarria: “Circondatevi di Best Bräu aperte, non di menti chiuse”. Mi incuriosisco alla storia di questa birra, leggo l’etichetta, la cerco su Google. Scopro che viene prodotta qui, a Sankt Pölten, nella Bassa Austria, nella zona periferica, vicino all’autostrada Kremser Schnellstraße. Ci sono campi coltivati, prati verdi, cielo azzurro e una grossa struttura della Egger, una delle più famose birre austriache. Tra le foto dei capannoni e dei macchinari trovo anche una Best Bräu, a conferma definitiva. In pratica la Egger, oltre al proprio marchio, produce birra per tanti altri marchi, tra i quali la “Miglior Birra” dell’Eurospin. 

Vicino alla Best Bräu sommersa trovo una scatola in latta della liquirizia Taitù, la storica “liquirizia calabrese” parzialmente nascosta dall’erba. E’ rosa, la scritta rossa con il font originale di un secolo fa, e al centro una donna nera con velo verde e in testa un copricapo tradizionale. Alle spalle sabbia, si intuisce una zona desertica, e delle palme, ripetute come tema grafico anche in altri punti della scatoletta. Taitù era la regina Taitù Batùl, il cui nome significava Sole e Luce di Etiopia. Imperatrice del paese dal 1889 al 1913 e moglie del negus, cioè il re, Menelik II. Nella cultura di massa italiana divenne molto popolare come donna antipatica, superba, dispotica. Questo avvenne grazie ai resoconti italiani – che però allo stesso tempo la definivano anche come intelligente e di grande energie – dove la regina veniva descritta come una donna permalosa che contraddiceva il marito in pubblico, fatto questo che face nascere vari modi dire, come “Chi ti credi di essere, la regina Taitù?” e similari o «Sembra il marito della regina Taitù» quest’ultimo per definire uomini sottomessi. Il suo nome finì anche in filastrocche o parodie di canzoni dell’epoca. Come sia  finita qua, impossibile saperlo. Sono andato al centro commerciale qua vicino, all’inizio del ponte, e ho cercato ovunque, in tutti i negozi, questo tipo di liquirizia, non trovandolo. Dunque o è arrivata col fiume o è stata gettata dal ponte da una macchina in corsa. Va detto che ha comunque un suo fascino e forse potevo portarla vita, lavarla e magari regalarla a mia madre o qualcun altro. Penso che è un bell’oggetto, eppure non mi viene in mente di portarla via, però scatto la foto.

Da terra parte una struttura metallica che si affaccia sul fiume, non so perché, sembra come un trampolino, ci salgo, mi avvicino il più possibile e guardo l’acqua scorrere, mi trovo tra i due ponti paralleli, tagliati longitudinalmente dal fiume, mi piacerebbe fare un tuffo, ma non lo faccio. Penso: ottimo posto per perdere le chiavi della macchina. Penso anche a come farei a ritrovarle. Scendo dalla struttura metallica, mi accerto di avere ancora le chiavi in tasca, e torno indietro. Sulla strada noto una cosa che non avevo visto prima perché la vegetazione ostruiva la vista in quel senso. E’ un gatto morto. O meglio, quel che ne rimane. E’ bianco, abbastanza grande, mi pare morto da molto, si è già svuotato dalle viscere ed è esposto qua alla pioggia e al sole ipotizzo da mesi. Ormai è quasi una traccia, della sua tridimensionale organicità non è rimasto nulla o quasi. Non sembra abbia subito traumi, forse è morto naturalmente, ma diciamo la verità, non ne ho assolutamente idea. Risalgo dalla parte opposta di prima, a terra ci sono mucchi di spazzatura gialla e blu, colori complementari, o forse erano giallo e viola? Non lo so. Nell’erba che fiancheggia la stradina anche i resti di uno spuntino al Mac, tutti indizi che mi fanno intuire che stiamo tornando in aree più urbane. Non le raccolgo.

Lo sterrato sfuma nell’asfalto, le pozzanghere si fanno grosse, enormi, sembrano così profondi che ci potrebbe affondare un galeone, e ci sono grandi cancelli che a quest’ora proiettano grandi ombre, segno che qua ci passano tir e autocarri. Poco dopo mi trovo nel parcheggio di un’area commerciale. Rumore del traffico aumentato. Automobili parcheggiate. Clacson. Da lontano vedo un cartello con persone sorridenti e, sotto, una scritta: TO SMILE. Attraverso la strada a quattro corsie facendo un gesto cordiale alle macchine che mi fanno passare, e penso che se non lo facessero morirei, dunque sto letteralmente ringraziando queste persone di non uccidermi, poi riemergo dal parcheggio sotterraneo del centro commerciale dove ho lasciato la macchina un’ora o ventisei (1998) anni fa. Noto solo ora un cartello su un palo che non avevo notato prima, quando ero arrivato, nonostante sia proprio davanti alla mia automobile. E’ un cartello plastificato, o forse semplice carta però protetta da un foglio trasparente di plastica. Nel cartello c’è la fotografia di un gatto e sotto la scritta: 13 GENNAIO, SMARRITA GATTINA DI 4 MESI E MEZZO AL CENTRO COMMERCIALE. SE LA AVVISTATE CHIAMATE, segue numero di telefono e un GRAZIE. Non c’è di che, ma dubito che la gatta sia quella che ho visto io, è completamente diversa, non coincide con la foto, né con l’età. Sarebbe bello, narrativamente parlando, una bella chiusura del cerchio, ma non è vero, non è la stessa gatta. Metto in moto, esco dal parcheggio in retromarcia, mi fermo un attimo a riflettere, se andare avanti o andare indietro, con l’occhio cerco l’uscita dal parcheggio e la trovo, un grosso cartello con sopra scritto USCITA, da lì mi ritrovo sulla Strada statale 590 della Valle Cerrina, sta facendo buio, le strisce di neve sono bluastre, c’è un po’ di nebbia, sto attento agli autovelox, almeno una volta, e in pochi minuti arrivo al bivio che mi porta a casa, da dove sono partito, e dove sono tornato. 


 

Martino Pinna
Nato a Oristano nel 1984. Scrive e gira video. Fondatore di Sardegna Abbandonata, autore per CTRL Magazine e Rivista Savej. Coordina i dispacci di Batisfera.