44.487890, 11.372872 Il precorso

di Maria Luisa Legéria Miraglia


Il risveglio. Il momento cruciale in cui scendo a patti con il fatto che la mia dimensione naturale, quella onirica, ha raggiunto la fine del suo ciclo quotidiano. Il momento in cui mi scatto una fotografia emotiva che potrebbe diventare preziosa, come ultima testimonianza di una me intatta, prima di una fatidica giornata in cui accadrà qualcosa di inatteso e sconvolgente. Nelle ultime settimane è diventato il momento in cui languisco in un ridicolo capriccio infantile, per allontanare il più possibile il movimento corporeo traumatico che una vita da pendolare comporta. E non parlo del viaggio in sé, quanto del percorso tra casa e luogo di partenza, quel viaggio grigio che bisogna pianificare accuratamente per non rischiare di mancare la propria coincidenza, parola perfetta, così casuale, così giusto sottolineare quanto speranzosa sia la nostra pianificazione. Ogni spostamento mi sembra un pellegrinaggio in cui ognuno esercita la propria fede nelle infrastrutture ferroviarie e nelle proprie strutture cigolanti. O forse sono semplicemente pigra.
Apro gli occhi e sono a letto. La luce filtra dalle persiane che non lascio mai del tutto abbassate. Gli oggetti immobili nella mia stanza sembrano acquisire spessore solo quando spezzano i raggi del sole con la loro opacità tridimensionale.
Ancora mezza addormentata, mi sento piatta anche io in questo momento. Stesa su una superficie orizzontale come marmellata sul pane. 
Penso al movimento che tra sempre meno tempo dovrò compiere per spostarmi nello spazio. Alzarmi significa modellarmi in tre dimensioni a partire dal disegno che ho impresso sulle lenzuola con il mio corpo. La conquista della posizione eretta è una tappa evolutiva non da poco. La mia attuale bidimensionalità mi fa sentire l’ombra di me stessa, eppure conservo la memoria del mio corpo pieno che si muove in casa. In testa mi proietto questo film d’azione. Mi inquadro dall’alto e vedo un cerchio che lascia piccole orme tratteggiate. Poi mi inquadro dal basso e vedo la sagoma delle pantofole che segue dei binari abitudinari. Poi basta mi alzo.
Eppure non basta, fare il primo passo non basta. Percepisco una frizione tra la mia resistenza cocciuta e vana e l’ineluttabilità del tempo che passa, del mio autobus laggiù in strada che passa, del treno lontanissimo che passa. I miei passi che dovrebbero portarmi sempre più vicina alla meta deragliano, ma non muore nessuno. Mi portano in bagno, poi in cucina poi in camera cercando qualcosa, trovando tempo perso. Il mio indugiare è quello di un bambino, troppo distratto da un’infinità di dettagli e pensieri che acquistano valore al momento meno opportuno. L’adulta responsabile che ogni tanto ospito invece mi elenca gli indirizzi e le distanze che devo coprire entro le 10:
  1. la fermata del 27B, direzione Corticella. È sulla via Emilia, cinque minuti a piedi da casa mia.
  2. Il binario del treno 3920, linea Ancona-Piacenza. Di solito è il 4 o il 1, quello dove si può ancora vedere la ferita di vetro lasciata da mani nere il 2 agosto 1980. Circa mezz’ora di autobus da casa mia.
  3. L’edificio a Reggio Emilia dove sto seguendo un corso. Più di un’ora e mezza da casa mia.

Mi sembra più appropriata questa misurazione della distanza nel tempo piuttosto che nello spazio, una misura per accumulo, spezzettata in diversi mezzi dove passo il tempo ferma seppure in movimento. E quel momento in cui arrivo e mi fermo non ci sarebbe mai stato se prima non avessi fatto quel fatidico primo passo fuori dal letto, fuori dalla stanza e poi fuori di casa. Ma io quel passo non lo voglio fare. Giro in tondo. Provo a disegnare una spirale di passi con i miei spostamenti orfani di direzione, provo a fingere che non sia così grave mezz’ora di ritardo, provo a calcolare quanti altri treni potrei prendere, ora che ho perso quello abituale. Sarebbe più facile non andare proprio? Forse. Sarebbe più giusto avvisare? Sicuramente. Non faccio nulla. 
Non è vero. Lavo i piatti della colazione. Mi pettino evitando di guardarmi allo specchio. Mi infilo le scarpe. E poi percorro il corridoio nella direzione contraria a quella prevista, mi sono ricordata di aver lasciato la finestra aperta. La chiudo anche se preferirei lasciarla aperta tutto il giorno. Guardo il fuori attraverso il vetro. Non ho ancora voglia di uscire. Penso che prima o poi dovrò farlo. Ancora non lo faccio. Ora mi accorgo che è diventato una specie di sfida, o di gioco. Quanto posso ancora indugiare nella protezione di queste mura uterine prima di doverle lasciare? Mi accorgo di non provare alcuna emozione se penso alla prospettiva di non uscire. Non vergogna verso le mie responsabilità disattese, né piacere per la potenziale conquista di una giornata di libertà imprevista. Forse l’antimotore più forte è il pensiero del bagno di folla che mi aspetta nel mezzo pubblico, io che mi sento ancora tiepida. Fino a una manciata di minuti fa crisalide arrotolata in un grembo morbido di lenzuola, non ho nessun interesse a farmi schiacciare da corpi sconosciuti e casuali, dall’odore e dal calore della gente mentre esiste.
Basta. Apro la porta. Mi formicola l’alluce, mentre mi porta a varcare una soglia che non mi è mai sembrata così definitiva. Non è vero che fare il primo passo non basta, basta ricordarsi di cedere il comando al pilota automatico. Prima o poi arriverò.

 


Maria Luisa Legéria Miraglia
Chiave di volta in volta. Nasce ieri e continua ogni giorno a improvvisare, per vocazione. Non è di qui.