44.902358, 8.602335 Alessandria mon amour

di Kai Ortolani


Ho pensato, senza farmi troppi scrupoli, di parlare d’amore. Alla fine, con questa storia che tutti parlano d’amore, nessuno ne parla mai; e invece l’amore è importante, è il segreto della Sacra Scuola di Hokuto, quello con cui Kenshiro riesce a far esplodere le teste dei nemici. Io non sono particolarmente interessata ad approfondire con precisione la questione del collegamento tra il vero amore e le teste che esplodono, anche se ammetto che l’idea in sé è piuttosto affascinante. Però preferisco lasciarla così, come una pennellata nella mia mente: l’amore e le esplosioni.

Non so davvero se Alessandria possa essere considerata una città in qualche modo interessante o piacevole per qualcuno che non sia accecato dall’affetto o dall’amore. Umberto Eco ad esempio la amava molto, ma era nato lì e quindi a quanto pare aveva i suoi motivi. Penso sia bello e rassicurante amare il luogo in cui si è nati, credo che debba dare un senso di pace avere ricordi pieni d’amore per la città che risulta essere ufficialmente la nostra città. Si dice “io sono di Genova”, “io sono di Venezia”, “io sono di Napoli”, e tutti di solito sentono un legame abbastanza profondo con la propria città. Insomma, chi più, chi meno. Io ad esempio sono nata a Milano, ma credo di non essermi mai sentita milanese nemmeno per un minuto in vita mia, e con Milano ho un rapporto che non riesco davvero a comprendere. Razionalmente so che è la mia città, ma questo che cosa significa? Non ne ho idea, ho la sensazione di essere nata su questa terra e so che Milano ne fa parte, però ammetto che mi piacerebbe sentire quello che evidentemente sentiva Eco per Alessandria.
Perché quindi voglio parlare di amore e di Alessandria? Umberto Eco non c’entra nulla, anche se tanti anni fa ho letto Baudolino – unico libro suo che ho letto, sì lo so, dovrei leggere anche gli altri – e mi è piaciuto davvero tanto. Parlava moltissimo di Alessandria, ma ho detto che Eco non c’entra.
Per me Alessandria è il posto in cui l’amore tra me e Martino è cominciato per davvero, due anni e mezzo fa. In realtà la prima volta in cui ci siamo abbracciati eravamo seduti sugli scogli, davanti al mare. Ricordo che in mezzo a quel primo abbraccio lui tremava, ed era stato strano e bellissimo abbracciarsi per la prima volta.
Però quando ci siamo baciati per la prima volta eravamo ad Alessandria.

– DISSOLVENZA –

L’ho detto che avrei parlato d’amore.

Io a volte mi fisso su certe canzoni. Per la verità è una cosa che mi capita abbastanza spesso, quando ne scopro una che mi piace particolarmente o che per qualche ragione mi colpisce. Nei giorni scorsi ho ascoltato a ripetizione mille volte al giorno “Milk and Honey” di Jackson C. Frank e anche “Cuándo Olvidaré” di C. Tangana, per cui quando inizio la mia esplorazione per le strade di Alessandria ho in testa pezzi di una e dell’altra. Mi fa piacere che mi risuonino nella mente, anche se potrebbero essere viste come dei tarli. Ma sono tarli adorabili, non come quel tarlo della pancetta a cubetti che un anno fa mi era arrivato a tradimento attraverso la mia radio preferita e mi si era piantato in testa per giorni e giorni. Quanto dolore può essere generato da un semplice jingle pubblicitario. Non la comprerò mai la vostra pancetta, sono vegetariana, ma non è questo il punto. Se anche fossi una voracissima divoratrice di pancetta, dopo aver subito la tortura di quella pubblicità mi guarderei bene dal comprare la vostra, avete sbagliato campagna pubblicitaria, sul serio. E se sembra che io stia esagerando, no, non sto esagerando, sto riducendo la questione a una quisquilia di poco conto, perché non amo le esagerazioni. Ma tornando ai tarli “buoni”, sento davvero un senso di piacere nel percepire la differenza sostanziale tra la pubblicità della pancetta e queste due canzoni, tanto piacere che mi viene da sorridere. Tra l’altro, entrambe le canzoni parlano di amori tormentati e di stagioni che si susseguono, e trovo buffa questa coincidenza; sempre che sia una coincidenza: io mi diverto a vedere segni e simbologie un po’ ovunque, ma lo faccio appunto per divertimento, senza troppo impegno. Insomma sempre a livello di pennellata nella mia mente. “Forse non è una coincidenza, forse è tutto collegato” mi dico. E chissà.
Non so precisamente quello che sto andando a cercare ad Alessandria. Ovviamente è qualcosa che riguarda noi due e che riguarda l’amore. Ricordi, segnali, simboli, o illuminazioni. Qualcosa che mi faccia capire qualcos’altro, una visione diversa da un’altra prospettiva.

Dopo una serie quasi infinita di lentissimi giri nell’enorme parcheggio che sta accanto alla stazione dei treni, dove non c’è nemmeno un posto, vedo una ragazza a piedi che mi fa dei cenni. Abbasso il finestrino. Mi dice “sto andando via, sono là!” e mi indica la direzione. La seguo provando un forte senso di gratitudine nei suoi confronti. Prima che salga sulla sua macchina la ringrazio “Sei la mia salvatrice, era mezz’ora che giravo”. E lei mi fa un sorriso. “Figurati,” mi dice “lo so, è un casino trovare parcheggio qui”, e se ne va.

Mi incammino a piedi verso la stazione, ho deciso che la mia esplorazione partirà da lì, perché è da lì che siamo arrivati ad Alessandria io e Martino due anni e mezzo fa.
Tornando un attimo alla questione dei collegamenti simbolici pieni di sensi che non si capiscono, mentre mi incammino verso la stazione sento dolore al coccige, perché qualche giorno fa ho fatto un volo all’indietro cadendo da un piccolo skate rosa con le rotelle luccicanti; non ero mai andata su uno skate in vita mia e una mia giovane amica di nove anni mi ha detto “dai prova, si fa così”. Ho provato, ci ho preso un po’ la mano, e nel giro di due minuti mi sono ritrovata con la schiena a terra e senza fiato, con la stanza intorno a me che all’improvviso era diventata tutta blu scuro. Proprio l’altra sera stavo parlando con un caro amico di quanto fa male sbattere l’osso sacro, e lui diceva che in quarant’anni non gli era mai successo. L’avevo trovato strano: sbattere il coccige almeno una volta nella vita mi sembra del tutto normale, io conosco piuttosto bene quel tipo di dolore; ormai però era da dieci anni che non mi capitava più di sentirlo. Appunto, dieci anni, e qui c’è la coincidenza. Quando Martino e io ci siamo incontrati per la prima volta, il 27 gennaio del 2013 – cioè esattamente 68 anni dopo che le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nell’offensiva Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz – mi faceva male il coccige. Una settimana prima avevo fatto un salto da una specie di impalcatura calcolando abbastanza male le possibilità che avevo di evitare un forte dolore ed ero caduta in maniera piuttosto ridicola sui talloni, finendo con la schiena a terra.
Così, portandomi dietro questa simbolica coincidenza che percepisco nettamente nel mio corpo, varco l’ingresso della stazione. Se non ricordo male, l’ultima volta in cui sono stata alla stazione di Alessandria era proprio due anni e mezzo fa, quando da Genova siamo arrivati qui in treno, quindi immagino che ritrovandomi qui mi arriverà qualche ricordo di quel giorno, qualche segno del nostro passaggio, o qualche simbolo. Guardo anche dentro un cestino per vedere se trovo qualche segnale nella spazzatura. Niente di interessante, niente che mi colpisca in qualche modo. Una lattina di coca cola schiacciata, la plastica di un pacchetto di patatine. Forse cercare i segni di un amore dentro la spazzatura non sarà romantico ma per me tutto è possibile, non interpreto la spazzatura come spazzatura. Sono cose come le altre, fanno parte del mondo come tutto il resto, solo che sono state abbandonate da qualcuno che non le voleva più portare con sé, tutto qui; potrebbero benissimo esserci simboli interessanti anche lì. Invece no.

Faccio qualche passo dentro la stazione, l’atrio è ampio, il pavimento è lucido e chiaro, e nella zona della biglietteria ci sono delle grosse colonne di marmo verde. All’improvviso, in maniera del tutto inaspettata, mi rendo conto del fatto che il ricordo più vivo e forte che sento in quel luogo non è legato a me e Martino che arriviamo lì innamorati, ma alla morte di mio padre. Il 22 novembre 2019, tre giorni dopo averlo visto morire e poche ore dopo aver sparso le sue ceneri sotto un grande olmo in giardino, io e due dei miei tre fratelli, frastornati e tristi, eravamo partiti dalla stazione di Alessandria per tornare ognuno a casa propria. Cercavo simboli d’amore e invece mi è arrivato improvvisamente un ricordo netto e chiaro di morte. Ma si sa che amore e morte sono legati, niente fango, niente loto.
Cerco ancora qualche segno dentro la stazione, ma nulla mi colpisce in modo particolare. Ci sono degli schermi, guardo se trovo qualche indizio tra le immagini che mandano. C’è un TG, parlano della guerra tra Russia e Ucraina, e di carri armati vecchi di sessant’anni. Sto cercando segni d’amore e per ora trovo solo l’opposto: morte, guerra.
D’altra parte ha senso, perché sto camminando dentro la stazione ferroviaria di Alessandria, che il 5 aprile del 1945 – solo venti giorni prima della fine del conflitto in Italia – fu colpita da un bombardamento aereo degli alleati. A quanto pare la stazione era l’unico obiettivo militare di quel bombardamento, che però è rimasto famoso perché fu colpita anche un sacco di altra roba. Ecco la relazione che la divisione partigiana Matteotti “Marengo” fece di quel bombardamento:

“Alle ore 15.20 circa del 5 aprile una formazione consistente di apparecchi da bombardamento anglo-americani compariva nel cielo della città discaricando il loro micidiale carico di bombe. La popolazione, ormai da tempo abituata alle azioni dei cacciabombardieri rapide e veloci ma nel tempo stesso precise, lontana dal pensare che l’azione potesse investire la città, seguiva in gran parte dalle finestre e dalle vie cittadine la formazione aerea. Altro fatto che faceva ritenere la popolazione al sicuro da ogni bombardamento era quello che nella città non esisteva nessun reparto o comando di importanza tale che giustificasse una qualunque azione sull’abitato. È inutile descrivere le scene di strazio verificatesi, lo scompiglio nella vita cittadina, e quanta fiducia persero gli alessandrini verso gli anglo-americani, e quanto materiale inutilmente distrutto. Vi è chi ha perso tutto, e taluni la vita. Ma troppo lungo sarebbe il soffermarci su problemi e questioni di carattere sentimentale, morale e politico, non esclusi quelli a carattere nazionale, che occuperebbero il primo posto. Ci limitiamo dunque a riportare i danni sofferti dalla città e dalla sua innocente popolazione, sicuri che fatti del genere non abbiano mai più a verificarsi. Ed è del resto l’unica forma di violenta protesta che siamo in grado di fare, nello stato di disperata condizione di rovina in cui siamo stati portati forzatamente noi italiani.

– Case completamente rase al suolo: 45
– Appartamenti distrutti o resi inabitabili: 1000
– Cittadini deceduti: 150, e il loro numero è sempre in aumento
– Obiettivi militari colpiti: la stazione ferroviaria, dalla quale non parte più alcun treno.”

Esco dalla stazione, fuori fa abbastanza caldo, c’è il sole, la primavera sta per arrivare ma secondo me è già arrivata, è pieno di piante fiorite ovunque (“Spring is born and wanders free”, mi canta il mio piacevole tarlo Jackson Frank). Attraverso la strada e cammino verso il parco. Un grosso cartello marrone davanti a me dice “Giardino comunale” e vieta una serie di cose, tra cui giocare sul suolo pubblico, raccogliere fiori, transitare sui siti erbosi, dormire e coricarsi sulle panchine, circolare con veicoli in genere; sotto i divieti ci sono poi due obblighi: condurre i cani solo sui camminamenti e conferire i rifiuti negli appositi contenitori. Anche qui non trovo segni del nostro amore, né del nostro passaggio, né mi sembra che ci siano ammonimenti su come dovremmo comportarci in futuro per essere in armonia. Forse conferire i rifiuti negli appositi contenitori può essere un’idea, credo abbia senso, ma quello che noto di più è che il rapporto tra gli abitanti della città e la natura è quantomeno strano. Mi avvicino a una cabina telefonica, ci entro dentro, anche lì non trovo segni, il telefono non squilla e nessuno ha lasciato messaggi per me.

Imposto il navigatore per fare a piedi la stessa strada che abbiamo percorso io e Martino quel giorno e dal parco proseguo verso viale Brigata Ravenna. C’è una rotonda, devo andare a destra, il cartello indica “Quartiere Cristo”. Arrivata sul ponte che passa sopra la ferrovia vedo alla mia destra sulla grata la scritta “ALTA TENSIONE PERICOLO DI MORTE”. Questo potrebbe essere un ammonimento utile, lo accolgo senza esitare, meglio evitare l’alta tensione, certo. Poi, guardando il marciapiede con l’erba e gli alberi capitozzati davanti a me, mi ricordo improvvisamente di questo posto, e torno a quel giorno di due anni e mezzo fa. È una sensazione molto piacevole perché finalmente la mia mente vede un segno di quel giorno. Sento un senso di calore e mi commuovo un po’, questi alberi che vedo lungo il marciapiede mi sono familiari, me li ricordo bene, in questa città che in realtà praticamente non conosco per nulla anche se ha un così grande significato per me. E mentre mi godo questa sensazione di commovente familiarità vedo venire verso di me a piedi un signore che trasporta in spalla delle scope di varie forme, colori e misure. Passando ci incrociamo, io tentenno un po’, gli faccio un sorriso, lui sta per superarmi e proseguire ma poi si ferma e mi chiede se voglio comprare una scopa.
Be’, se non è un segno questo! Devo assolutamente comprare una scopa. Per un attimo mi dico “ma sei scema? Vuoi girare per Alessandria con una scopa?” ma mi rispondo prontamente che sì, vorrei proprio comprarla. E sai che ti dico? Voglio quella di saggina. E poi vado in giro per Alessandria portandomi dietro una scopa di saggina. Che immagine bellissima. E poi credo che questo signore possa avere qualche indizio da darmi.
“Ma sì” gli dico “in effetti mi serve”.
Le macchine continuano a passare veloci accanto a noi, sul ponte. Lui appoggia per terra il contenitore delle scope e una sacca in cui ha altre cose da vendere. Scelgo una scopa normale, non quella di saggina, e mentre gli dico di togliere il bastone mi sento un po’ pavida: andrò in giro per Alessandria con una scopa nella borsa e nessuno se ne accorgerà. Lui è alto e magro, e ha uno sguardo vispo e gentile, con gli occhi che ridono ma che sembrano al contempo pieni di una qualche nostalgia lontana.
“Quanto ti devo?”
“Fai tu, quello che hai” mi dice sorridendo. Ha un accento straniero, ma non capisco di dove possa essere. Pago la scopa e poi ci mettiamo a parlare. E tra una parola e l’altra va a finire che chiacchieriamo per quasi venti minuti, così, su un ponte, con le macchine che ci sfrecciano accanto. Mi racconta che abita a Trino e che gira in vari paesi dei dintorni per vendere le scope. Gli chiedo se la gente gliele compra e mi risponde con un’espressione un po’ afflitta “Eh non tantissimo, faccio fatica, poi il biglietto del treno costa” dice guardando la ferrovia sotto di noi. “È faticoso anche perché sono vecchio, ho sessantasette anni”. Gli dico che non sembra, ne mostra molti meno; in effetti ha un po’ di rughe ma gli avrei dato forse dieci anni in meno. Sorride, dice che lo sa e che glielo dicono in tanti, però lui gli anni se li sente, poi ha anche qualche acciacco, la schiena, cose così. Mi fa un po’ di domande su di me, sulla mia famiglia, se ho fratelli e sorelle, se vivono vicino a me o altrove, poi mi racconta che lui viene dal Marocco e che è venuto in Italia nel 1986. Vive con sua moglie, anche lei marocchina, e ha dieci anni anni meno di lui, mi dice. “L’hai conosciuta qui o in Marocco?” gli chiedo. “In Marocco, e poi ci siamo trasferiti qui insieme. E abbiamo due figli maschi e una femmina. Adesso i figli sono andati a vivere da soli, sono grandi” mi dice. E poi aggiunge sorridendo che lui e sua moglie si amano ancora tanto; gli si illuminano proprio gli occhi mentre lo dice, si vede molto bene che è vero. “E tu sei sposata?” mi chiede. “Fidanzata” gli rispondo. Mi chiede quanti anni ha il mio fidanzato e da quanto tempo stiamo insieme. Gli rispondo e lui fa una faccia. “E che cosa aspettate a sposarvi?” mi dice. Poi mi dice che non è grave che io abbia due anni più di lui, e che se ci amiamo e se lui è bravo, non beve alcol e non fuma, ma soprattutto – ribadisce – se ci amiamo, dovremmo sposarci. Gli sorrido e gli dico che sì, chissà, magari in futuro. Mi chiede ancora se lui non beve, vuole essere sicuro, mi dice sorridendo che mi sta parlando come se fossi sua figlia. Confermo che non beve, e che non bevo nemmeno io. Molte tisane e tè, acqua, succhi di frutta eventualmente, ma niente alcol. Il fatto che non ci siamo sposati continua a sembrargli strano. “Ma non è che ha un’altra?” mi chiede. Gli sorrido, alzo le spalle, gli rispondo che non credo e gli dico che forse in Italia queste faccende funzionano in modo un po’ diverso rispetto al Marocco, e che è normale anche stare insieme senza sposarsi. Annuisce e ripete che infatti l’importante è che ci amiamo e non beviamo alcol. Poi mi chiede se lui è di qui e gli dico che è sardo. “Ah!” mi dice “io sono stato varie volte sia a Cagliari che a Oristano tanti anni fa”. Ok, se per caso avevo dei dubbi sul fatto di poter trovare segni e simboli nella nostra conversazione (e non ne avevo fin dall’inizio), ora è molto chiaro che è tutto collegato. “I sardi sono davvero brave persone” aggiunge, e lo ripete ancora un paio di volte. Gli piacciono tantissimo i sardi, e mi dice che il mio fidanzato deve essere di sicuro una brava persona. Poi si rimette in spalla la sacca con le scope e l’altra borsa e mi tende la mano, mi fa duecento auguri e mi dice che è stato bello parlare con me, io gli dico che per me è stato lo stesso, ci diciamo grazie, ci salutiamo e riprendiamo a camminare, io in una direzione e lui in quella opposta. Nella testa mi parte l’altro tarlo musicale di questi giorni e mi risuonano parole in spagnolo che capisco fino a un certo punto “Pasan los días / El otoño, el invierno y la primavera / Llega el verano, / vida mía, y no te tengo a mi vera”.

Da viale Brigata Ravenna giro in viale Tivoli e poi mi trovo in corso Carlo Marx. Il quartiere Cristo, dove sto camminando, non si chiama così per via di Gesù, che a quanto pare non c’entra nulla, ma perché si trova sulla strada che da Alessandria un tempo portava alla città di Caristo, capitale dei Liguri Statielli che fu attaccata a tradimento dai Romani nel 173 a.C. e poi distrutta. Dove sorgeva Caristo i romani fondarono Acqui Terme, che si potrebbe raggiungere in circa sette ore di cammino partendo da quello che oggi si chiama corso Acqui, a due passi da qui. Gli Statielli, prima di essere sconfitti dai Romani, stavano anche qui ad Alessandria. Poverini, erano rimasti sempre neutrali durante le varie guerre romano-liguri, e quando i Romani attaccarono Caristo, non opposero resistenza. Ne morirono circa 10.000 e quelli che rimasero vivi furono venduti come schiavi.

Cammino lungo corso Carlo Marx e vedo già le tende a cappottina bianche e rosse dell’Hotel Eden.
Fino a poco meno di ottant’anni fa nel punto in cui mi trovo correva un canale artificiale. Si chiamava canale Carlo Alberto – che nome altisonante per un canale – ed era stato costruito nel 1831. Andava a finire nel fiume Tanaro e fu coperto poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Oggi il suo corso è stato deviato, ma scorre ancora sotto le vie della città.

Arrivo davanti all’hotel. È strano essere qui ora. Sto uscendo da questa porta, mentre fuori piove, due anni e mezzo fa. Mi chiudo la porta alle spalle, sono con Martino, siamo di nuovo diretti alla stazione. Mi si confonde un po’ il cervello: il passato non esiste, infatti il passato è presente e allora esiste. Ora fuori c’è il sole, entro e l’ingresso è abbastanza buio. Mi avvicino alla reception, dove sta seduta la signora Anna. Ha l’aria un po’ triste, mi saluta. Ricordo che anche l’altra volta avevo notato che aveva l’aria un po’ triste, ma forse meno rispetto ad ora. La saluto e tento di spiegarle brevemente il mio piano segreto. Non voglio annoiarla con le mie romanticherie, anche perché appunto le mie romanticherie cozzano un po’ con la sua aria triste.
“Vi sposate?” mi chiede d’un tratto, dopo aver capito che le sto parlando di qualcosa che ha a che vedere con l’amore – cioè quello con cui Kenshiro fa esplodere le teste dei nemici, ricordiamo.
“No, no” le spiego “però volevo fare una piccola cosa romantica, una sorpresa”. Si stupisce un po’ quando le dico che si tratta semplicemente di appoggiare una lettera sul letto e mi dice che pensava che volessi fare qualcosa di più eclatante, tipo riempire la stanza di palloncini a forma di cuore o coprire il letto con petali di rosa. Mi dice che altri chiedono cose così. Insomma, la mia romanticheria è un po’ da poveri ma non c’è nessun problema, posso avvisare anche all’ultimo, mi dice, tanto di solito nel fine settimana non c’è mai troppa gente, e una stanza si trova di sicuro. Poi mi guarda e accenna un sorriso, mi dice che si vede che sono innamorata. Io probabilmente arrossisco come se fossi una dodicenne. Mi chiede se anche lui è innamorato, poi mi chiede da quanti anni stiamo insieme. “Eh, quanto vuoi che siano due anni e mezzo!” mi dice dopo aver sentito la mia risposta. “È normale essere ancora innamorati”. Poi mi dice che se passo di nuovo per portare lì la mia letterina probabilmente non troverò lei ma suo genero, di consegnarla a lui. Mi dice che lei sta alla reception poche ore al giorno perché ha problemi di salute, le dico che mi dispiace. Lei precisa che si tratta di depressione, e che si sente molto male perché ha problemi economici e tutto le sembra difficile, la figlia vuole fare di testa sua nella gestione dell’albergo ma andare avanti con così tante tasse da pagare è quasi impossibile. Mi dispiace davvero, si vedeva che aveva l’aria triste ma non pensavo fosse così tanto triste, ed è evidente che non ho modo di consolarla anche se vorrei. Ci salutiamo, esco dall’hotel.

Durante la seconda guerra mondiale Alessandria fu bombardata varie volte. Ci fu un primo bombardamento il 14 agosto 1940; poi, dopo una pausa durata qualche anno, ce ne fu un altro particolarmente cruento il 30 aprile 1944. Era domenica, poco dopo mezzogiorno, e furono colpiti in particolare il quartiere Cristo e il borgo Littorio. Quel giorno morirono 239 persone e furono distrutte moltissime case, palazzi e chiese. Fu colpita anche la cattedrale e fu quasi completamente distrutto il palazzo Trotti Bentivoglio.
“Round and round the burning circle” mi canta nella testa Jackson Frank mentre cerco altri segnali “All the seasons, one, two and three / Autumn comes and then the Winter / Spring is born and wanders free”. Passo accanto a un posto dove sopra a una grossa saracinesca chiusa c’è un’insegna che dice “FUOCHI D’ARTIFICIO”. Non so bene che strada prendere. Forse andrò a cercare il ristorante cinese dove avevamo mangiato quella sera, era qui vicino. Vado avanti lungo corso Carlo Marx ma a un certo punto capisco che devo essermi sbagliata, il ristorante deve essere in una parallela. Preferisco evitare di riaprire google maps e trovarlo da sola. Torno indietro finché non trovo una via con un nome che mi ispira. Marco Polo, sì, ci vado. È una viuzza stretta che porta a corso Acqui. Mi guardo intorno e mi pare di ricordare qualcosa, il ristorante doveva essere da queste parti. E infatti andando avanti ancora un po’ lo trovo. E di nuovo mi si mischiano in testa il passato e il presente – qualsiasi cosa voglia dire passato e qualsiasi cosa voglia dire presente. È esattamente un ristorante cinese qualsiasi, ma è quello. Guardo la porta, mi sposto un po’ per lasciare uscire noi due quella sera. Siamo esattamente lì ma non sappiamo che ci sono anche io. Cerco di non farmi notare, altrimenti potrei modificare il continuum spazio temporale, lo so a memoria “Ritorno al futuro”, bisogna fare tesoro dell’esperienza. Mi commuovo e mi viene da piangere, e mi fa ridere che questo ristorante cinese mi faccia venire da piangere. In effetti ci siamo detti tante volte che non era granché, ma non importa, è ora di pranzo e poi avevo già deciso che avrei mangiato qui, in cerca di qualche segnale. Entro e vedo subito che il tavolo a cui eravamo seduti quella sera è libero, anche se ci sono ancora le tovagliette di qualcuno che è andato via poco fa. Mi siedo lì, ma al posto in cui era seduto Martino, perché se guardassi dalla stessa identica prospettiva di due anni e mezzo fa probabilmente mi perderei qualche utile segnale. Appoggio la borsa – che è abbastanza ingombrante perché tra le altre cose contiene una scopa – sulla sedia davanti a me. La cameriera mi porta il menù, pulisce il tavolo e apparecchia. Mi sembra sempre strano essere servita da qualcuno, non ci sono abituata. Fanno anche cucina giapponese e scelgo degli uramaki vegetariani. Poi vado in bagno. Sopra al lavandino c’è un cartello con scritto “Acqua Forte Scchiaciare Piano Piano!” tra le parole italiane c’è anche una scritta in cinese che suppongo esprima lo stesso concetto. Effettivamente l’acqua, che si aziona con un pedale a terra, ha una notevole pressione. Per fortuna però qui non c’è pericolo di morte ma solo pericolo di doccia fredda involontaria. In ogni caso lo considero un segno: c’è da fare attenzione all’alta tensione e all’alta pressione, ha senso, grazie del consiglio. Torno a sedermi e dopo poco la cameriera mi porta gli uramaki. È piacevole mangiare qualcosa di diverso dal solito, anche se io sono una vera professionista del mangiare sempre le stesse quattro cose senza lamentarmi. Potrei letteralmente andare avanti a pane e acqua per un bel po’, o a birra e noccioline come facevo qualche anno fa. Era una dieta completa: le noccioline avevano le proteine, la birra aveva i carboidrati. Prendo anche un tè caldo, uno dei motivi per cui mi piace mangiare nei ristoranti cinesi è che non considerano strano il fatto che si beva del tè caldo mentre si mangia. Finisco di mangiare il mio cibo diverso dal solito, poi faccio spazio sul tavolo, prendo i fogli e la penna e inizio a scrivere la lettera per Martino. Mentre scrivo mi sembra di essere finita dentro un anime giapponese, per via della colonna sonora, le tipiche canzoncine rilassanti da ristorante. Una mi colpisce più delle altre e chiedo alla cameriera se sa che canzone è. Mi risponde che è musica cinese e poi mi fa vedere sul suo telefono il titolo, in cinese. È difficile che ci capisca qualcosa e che da quello io possa risalire alla canzone, per cui registro l’audio con il telefono, pensando che poi forse in qualche modo potrò capire che canzone è e che cosa dice. Magari ci trovo qualche segno.
Effettivamente poi riesco a risalire al titolo, fischiettando il motivo e chiedendo a google. La canzone si intitola così: 戀人心 ed è cantata da 魏新雨. E parla di amore, di fiumi, di sogni, di nuvole e di nostalgia. E c’è anche qui la primavera, come nelle mie due canzoni-tarlo.
Finisco di scrivere la lettera e mi sento bene, mi piace quello che sto architettando, anche se è da poveri e non ci sono vagonate di palloncini a forma di cuore.


Esco dal ristorante e vado di nuovo all’hotel, dove trovo alla reception tre tizi abbastanza bislacchi che parlano tra loro. Uno di loro mi chiede che cosa mi serve e capisco che deve essere il genero della signora Anna. Gli spiego la faccenda e lui si mette a ridere, ridono anche gli altri due, e rido anche io, non bisogna prendere troppo sul serio la roba romantica, si sa; poi mi dice che non c’è problema e che quando saprò la data gliela dirò. Mi ripete che basta che non sia un giorno in mezzo alla settimana e io confermo che dovrebbe essere venerdì o sabato. Ci salutiamo ed esco, senza sapere di preciso dove andare. Penso che andò a casaccio verso il centro.
A un certo punto mi trovo in via Vincenzo Capriolo, vedo la pista ciclabile e di nuovo mi ricordo precisamente di due anni e mezzo fa, e ancora provo quel senso di strana familiarità. Cammino un po’ per questa strada – che poi per un pezzo è parallela di viale brigata Ravenna, me ne accorgo quando le due strade si uniscono e mi trovo di nuovo sul ponte che passa sopra la ferrovia – e penso che ora non voglio più andare a cercare segni in posti in cui siamo stati insieme, ma in giro a caso in cerca di qualcosa che mi crei qualche collegamento di qualcosa che non so con qualcos’altro che non so. Decido di andare al Duomo, altrimenti detto Cattedrale dei Santi Pietro e Marco.

Cammino lungo via Cavour e continuo a cercare segni, ma non trovo granché. Passo accanto a via Gagliaudo. Lo so che non devo tornare troppo alle bombe della seconda guerra mondiale, ma qui c’è una scuola di suore salesiane, la Casa Maria Ausiliatrice, che fu colpita durante il bombardamento del 5 aprile 1945. Circa trenta bambini che si erano nascosti nel rifugio morirono per soffocamento.
“Quel pomeriggio eravamo a scuola, quando alle 15 sentimmo la sirena del preallarme. Non ci sembrava neanche vero di poter uscire in fretta nella splendida giornata di sole caldo primaverile. Poco tempo prima i genitori di noi della media avevano lasciato una sorta di liberatoria che ci consentiva di abbandonare le aule se l’allarme non era pericoloso, tant’è che con due compagni mi fermai a giocare alla palla nella piazza della prefettura, attigua alla scuola. Le scarse notizie che potevamo avere noi ragazzi lasciavano comunque presagire che la guerra era agli sgoccioli, e non avevamo fretta di tornare a casa: la paura dei lunghi mesi precedenti stava gradatamente scemando. Anche la colonna di automezzi militari parcheggiata sotto le piante della piazza dava l’impressione di uno stanziamento temporaneo, in attesa di battere in ritirata. Passò circa un quarto d’ora, e le sirene lanciarono l’allarme pericoloso, una serie di brevi e sinistri ululati intervallati da altrettante brevi pause. Ci salutammo in fretta e corsi a casa. Il terrificante frastuono del bombardamento mi colse sotto l’androne. Ricordo come in un sogno l’abbraccio di mio padre, accorso per trasportarmi nel rifugio in cantina, senza un’idea precisa di quello che era successo. Un’ora dopo tentai di tornare a scuola per prendere la cartella che avevo lasciato nel banco, ma a pochi metri da via Gagliaudo, armato di tutto punto e in tuta mimetica, mi fermò un noto fascista che mi impedì di proseguire. Lasciai la città in bicicletta, per la vicina Montecastello, e solo qualche giorno dopo venni a sapere di essere un sopravvissuto.”
Così racconta Gianni Coscia nel libro “Vittime dimenticate” di Renzo Penna.


E mentre oltrepasso via Gagliaudo ho sempre in testa Jackson Frank che canta Milk and Honey. “Spring is born and wanders free”, “La primavera è nata e vaga libera”. Era primavera quando bombardarono la scuola che sta a due passi da qui, è primavera adesso, ed era primavera anche quando il povero Jackson Frank, undicenne, si ritrovò coinvolto nell’incendio della scuola elementare che frequentava a Cheektowaga, vicino a Buffalo. Più precisamente era la mattina del 31 marzo 1954; ci fu una forte esplosione nel locale della caldaia e in poco tempo il fuoco si propagò in tutta la scuola. Quindici bambini morirono, e moltissimi altri si ustionarono. Jackson Frank riuscì a uscire dalla scuola tra le fiamme, ustionato per metà del corpo.
E quella fu solo la prima di una serie di sfortune apocalittiche che si abbatterono su di lui durante tutto l’arco della sua dolorosa vita, ma avevo detto che avrei parlato d’amore ed è meglio che con Jackson Frank mi fermi qui.

Attraverso Piazza della Libertà e mi ricordo che di qui eravamo passati due anni e mezzo fa. Io lo tenevo per mano e lo guidavo, lui teneva gli occhi chiusi. Era divertente. Passando accanto a un bar sento la canzone “Depende” degli Jarabe De Palo e mi fermo un istante “Que bonito es el amor
Mas que nunca en Primavera”. 
Giro in via Parma e raggiungo la cattedrale, che da fuori non ha un granché da dirmi. Dentro non c’è nessuno, ma vengo accolta da una musichetta soffusa e soave che arriva da qualche altoparlante. Mi guardo in giro, cerco un po’ ma non trovo particolari segni. Provo a pregare un po’ dio – qualsiasi cosa sia quello che chiamano dio – e accendo una candela. Non sono battezzata, ma mi piace accendere le candele in chiesa, lo faccio spesso. E poi butto lì preghiere a caso, che male non fa.
Saluto dio ed esco, senza sapere bene dove andare.  Tutto sommato, penso, forse quello che dovevo trovare, qualsiasi cosa fosse, l’ho trovato e posso tornare indietro.
Mentre percorro via Cavour nel senso inverso faccio un piccolo tentativo di dare un significato a quello che ho trovato durante la mia esplorazione, ma smetto subito.

Cammino ancora, tornando verso la stazione. In piazza Garibaldi, passando sotto i portici, vedo una zona che colpisce la mia attenzione. Non ricordo se eravamo stati qui, le zone pedonali dei centri storici si assomigliano un po’ tutte, ma forse posso trovare ancora qualcosa. Vado verso piazza Guglielmo Marconi, ci sono degli alberelli e due o tre panchine. E c’è uno spazzino vestito di arancione che sta tirando via un po’ di pattumiera in mezzo all’erba. Ha una bandana in testa, e ha l’aria simpatica, lo guardo mentre con la scopa raccoglie mozziconi di sigaretta e cartacce. Quando torna al suo carretto elettrico e parte imboccando via San Lorenzo decido di seguirlo e lo rincorro; la scopa di saggina che sta appoggiata dietro al carretto è sicuramente un segno. Si ferma all’incrocio con via Bergamo, scende e riprende a spazzare la strada. Io mi guardo in giro e decido di imboccare via Bergamo. In fondo c’è una piccola chiesetta che mi incuriosisce. Fuori c’è un cartello che dice “Chiesa di San Giacomo della Vittoria” e accanto un altro cartello dice “Luoghi del Cuore FAI”. Mentre leggo i cartelli un signore spunta fuori dalla chiesa e mi dice “C’è una mostra di rosari, la vuole vedere?”
Certo che sì.
La chiesa è piccola e bella, decisamente mi piace più del Duomo. Mentre la attraversiamo per andare a vedere i rosari lui si presenta, si chiama Loris, e c’è anche la sorella, Carmen. Quando possono vengono qui per far vedere la mostra; moltissimi di questi rosari, mi spiegano, li ha costruiti lui, mentre molti altri sono antichi. Sono esposti in varie teche appese al muro del corridoio che fiancheggia la chiesa e sono davvero tanti, non ho mai visto tanti rosari tutti insieme in vita mia. Lui abbastanza presto smette di darmi del lei e mi racconta un po’ la storia di questa collezione. La cosa interessante è che è un appassionato di botanica e costruisce rosari con i semi di un’infinità di piante diverse. Me ne fa vedere anche uno fatto con chicchi di caffè. Tra una chiacchiera e l’altra mi invitano anche a casa loro, abitano vicino ad Alessandria e hanno un grande terreno pieno di piante, quelle da cui ricava i semi per i rosari appunto. Poi mi dice anche che ha i semi del guado, il fiore con cui si faceva il blu dei jeans, e un mare di altri semi di piante.
A un certo punto mentre parliamo arriva Carmen lamentandosi del fatto che mentre noi stavamo guardando i rosari qualcuno deve essere entrato in chiesa a rubare le offerte di cibo lasciate lì per i poveri. E, sostiene lei, con ogni probabilità non si tratta di un povero. Io le dico che magari è un povero che si vergogna e che quando passa di lì prende il cibo che trova, senza avvertire. Lei dice di no, che è qualcuno che non ne ha davvero bisogno. Chissà. Poi, mentre camminiamo verso l’uscita della chiesa, mi mostra un affresco del XIV secolo, restaurato di recente. Rappresenta Maria che allatta Gesù, e Carmen mi spiega che è piuttosto raro vedere affreschi così nelle chiese: dopo il Concilio di Trento, Maria a seno scoperto fu considerata troppo osé.
Prima di salutarci ci scambiamo i numeri di telefono e poi usciamo insieme dalla chiesa.
“Fatti rivedere!” mi dice lui.
“Certo!”

E mentre torno indietro verso la stazione penso che è stato molto proficuo seguire lo spazzino con la bandana in testa e la faccia simpatica. A questo punto sento che la mia esplorazione è conclusa, credo di aver trovato i segni che cercavo. Passo di nuovo per il parco comunale dove è vietato fare tutto, costeggio la stazione e torno alla macchina con in testa le mie pennellate casuali e i miei tarli musicali, le esplosioni, l’amore, le scope, gli spazzini e i rosari, mischiando tutto insieme senza avere la pretesa né il desiderio di capirci qualcosa.

化作风 化作雨
化作春 走向你
梦如声 梦如影
梦是遥望的掌印
化作烟 化作泥
化作云 飘向你
思如海 恋如城
思念最遥不可及

你问西湖水
偷走她的几分美
时光一去不再
信誓旦旦留给谁
你问长江水 淘尽心酸的滋味
剩半颗恋人心 唤不回

我們正在經過
像空中的雲
你出生然後你死去

不知怎的 我們偏離得太遠了
像遙遠的星星一樣交流
電話裡支離破碎的聲音
陽光照射下的塵土
飄散著玫瑰的香氣
有人在門後等著

我希望你知道
那就是我的愛是多麼真實
無 言以對我的愛

我得唱歌 我心之歌

化作诗 化作笔
化作灯 写着你
默念著 轻叹著
那些深沉的字句
化作路 化作径
化作情 找寻你
爱一次 梦一 场


Kai Ortolani
Nata a Milano nel 1981. Scrive e ha scritto sceneggiature e racconti. Ha un gatto arancione.

44.5064057,11.3433022 Sottopaesaggio

di Chiara Acri


Cammino da giorni sempre la stessa strada, che forse più che una strada è una via. Se ci fosse qualcuno esperto di strade e di vie sono sicura che si renderebbe conto della differenza; ma io non lo sono. Sono solo una che cammina molto. Non lo faccio né per esercizio fisico né per una spinta dichiaratamente ecologista. Semplicemente non so andare in bici, non ho la patente, e mi faccio molte domande. Mi vergogno un po’ delle prime due cose, ma comunque ci convivo abbastanza bene. Cioè, c’è di peggio, lo riconosco. In realtà poi esistono gli autobus – il cui servizio qui è piuttosto buono – ma mi sento come il protagonista del romanzo che sto leggendo; lui racimola i soldi che la madre gli dà per il biglietto e alla fine del mese si compra sempre un nuovo libro. Certo, oramai a me nessuno mi dà i soldi per l’autobus, però comunque mi sembra un buon risparmio sulle spese mensili, e ogni tanto un libro nuovo riesco a comprarlo anch’io. Come quello che sto leggendo – dove peraltro ho trovato questa storia.

In verità, poi, cambia proprio tutto. Intendo dire in base a come ci si muove. Credo che sia una cosa che si dà molto per scontata, ma non lo è per niente. E se conoscessi un contrario convincente della parola scontata, lo userei, ma nessuno mi convince. Per cui ripeterò soltanto che è una cosa tutt’altro che scontata, perché mi sembra un concetto importante. E perché la gente si muove sempre, lo fa in svariatissimi modi, eppure io credo che nessuno rifletta poi tanto sul mezzo, e sul come. Mi viene più che altro da pensare a quelle lunghe linee che disegnava la mia prof. di geometria sulla lavagna interattiva – quando funzionava – per spiegare la distanza tra due punti. In realtà non si chiamavano linee ma segmenti (mi sgridava sempre) e nel tracciare questo segmento di finto pennarello nero non diceva quasi niente, rappresentava soltanto graficamente quella distanza, nera su sfondo bianco, asettica. Quando la lavagna però non funzionava – e non funzionava quasi mai – lei quella distanza non poteva percorrerla con la penna, così doveva raccontarcela. Ci diceva che la distanza tra due punti A e B è la somma di tutti i punti che stanno nello spazio che separa A da B, che potevano essere potenzialmente infiniti – comunque tantissimi -, prima di arrivare dal punto di partenza alla fine. E allora io mi immaginavo tutti quei puntini, impossibili da vedere alla lavagna e da individuare sparsi dentro il segmento nero, me li immaginavo quasi vivi, muoversi dentro la mia testa l’uno diverso dall’altro, accrescersi, espandersi fino a diventare ben definiti, tanto da poterli descrivere. Tutto a un tratto quello spazio bianco si riempiva, diventava come un paesaggio che si sarebbe potuto quasi fotografare. La geometria in quei momenti mi piaceva, ma ho continuato ad avere sempre voti molto bassi.

Mi torna in mente questo, a distanza di anni, mentre penso che percorrere uno spazio da un qualsiasi punto A ad un qualsiasi punto B, sopra qualsiasi mezzo di trasporto che non preveda il contatto diretto del tuo corpo con il suolo, sia come muoversi dentro quel segmento nero che disegnava la mia prof. con noncuranza alla lavagna. Si va veloci, ma dove sono i puntini? Camminare è raccontarseli; dentro una linea scoprire che ci sono infiniti mondi.

Così, cammino da giorni sempre la stessa strada, che forse più che una strada è una via. Il punto A è la mia residenza universitaria, il punto B è la stazione centrale di Bologna. Tra A e B – oltre la via che prosegue per circa settecento metri – un lungo Sottopassaggio; ed è proprio di lui che io voglio raccontare. Più che sottopassaggio in realtà potrei chiamarlo sotterraneo, perché svolge la funzione di passaggio credo quasi solo per me, nel senso che non ci passa mai nessuno (almeno quando ci passo io), probabilmente pochi ne conoscono perfino l’esistenza. Di fatto le scalette che bisogna scendere per arrivarci sono come in una rientranza dello spazio a cui io non avrei fatto caso se non fosse per google maps, che mi ha suggerito questo percorso. Non è nemmeno uno di quei tipici sottopassaggi – solitamente trafficatissimi – che poi ti conduce ai binari, quelli che costruiscono affinché non si passi in mezzo a loro. No, serve soltanto a tagliare invisibilmente questa parte di città e collegarne i due estremi, passando attraverso la stazione. Anche lui è un segmento, solo che sotterraneo.

Per me è il freddo ventre di bologna. Una bologna con la b minuscola, perché potrebbe essere il sottopassaggio di qualsiasi città del mondo. È questo il bello dei sotterranei. Scendo queste scale che mi sembrano luride, ma forse questo sporco è solo nella mia testa, nel mio aspettarmi che sia sporco, perché chi mai potrebbe immaginarsi le scale di un sottopassaggio pulite, chi mai potrebbe toccare questi passamano di metallo che sono sicura che nessuno proprio nessuno osa farlo, e allora forse sono più puliti di certi angoli di casa mia. A me questo sottopassaggio piace perché mi sembra una sospensione momentanea dalla realtà, da Marzo se è Marzo, dal giorno se è giorno; infatti ci entro e mi sento altrove. Qui la città scompare. E fuori tutto continua come prima ma tu non lo sai, nel senso che potrebbe succedere proprio qualsiasi cosa mentre sei lì giù e tu non lo sai, le macchine continuano a sfrecciare, forse una bici ha investito un passante e non si è nemmeno fermata per chiedergli come sta, qualcuno si tocca le tasche perché pensa di aver perso le monete di resto della spesa ma tanto erano giusto due spiccioli, ti stacchi dal tempo e ti proietti dall’altra parte della città come in un teletrasporto. Però, prima è questo spazio pieno e lunghissimo. Un’infinita corda, come il corridoio sospeso di una casa di tutti che però non figura dentro le planimetrie (se ancora le planimetrie esistessero, se ancora venissero disegnate a mano). E più che di una casa forse sarebbe il corridoio di un gigantesco ospedale di città. Ti fermi senza fermarti perché corri perché hai paura. E non so perché ho paura, se è perché ho paura degli ospedali o perché da poco hanno stuprato monica dentro quel film mentre passava dentro il sottopassaggio (e sono andata avanti sulla barra in basso fregando il tempo ma qui non esistono stratagemmi) o se è perché è uno spazio angusto che sembra la proiezione di sé stesso come in una lunga fila di specchi o è colpa degli anarchici. È un tunnel che mi crea un’inquietudine grigia, che per questo inseguo, nel senso che proprio inseguo, come fosse una cosa che vedo. Come tutto il grigio che c’è qui dentro quest’inquietudine si moltiplica, le si accresce il numero dell’esponente ad ogni altra cosa grigia che tocca e che per conseguenza diretta mi rimbalza sugli occhi che la ingurgitano; e quindi il pavimento grigio, i muri i grigi, i cancelli le scale dietro i cancelli grigi, i binari dei treni sotto i treni grigi, i miei passi grigi e i passamano grigi, grigi gli intarsi sui muri grigi, i soffitti grigi, i cartelloni, lo sfondo grigio dei tabelloni. Alla fine è tutto – soltanto – grigio, al di là di qualsiasi matematica e qualsiasi potenza, e ora capisco che ci entro perché lo temo e forse l’ho sempre saputo, da quando ho letto quella frase che dice lì dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva, che forse non c’entra ma mi torna in mente mentre cammino quasi corro e spero davvero di salvarmi mentre mi chiedo se dovessero mettere una bomba dove la metterebbero, perché penso che se qualcuno dovesse mettere una bomba la nasconderebbe proprio qui ma dove?, e l’hanno detto gli anarchici, l’hanno detto che ci sarà un attentato e allora io sono sicura che sarà questo il luogo ma vi prego non adesso. Sono vigile, vigilissima. La mia voce è un’eco che sono certa che se in fondo ci fosse qualcuno potrebbe sentirmi come se gli stessi sussurrando all’orecchio, e forse qualcuno in fondo c’è, così in fondo che non posso vederlo e se sei tu ti prego non adesso, lo dico proprio tra le labbra, lo dico, ti prego non adesso. E in mezzo a tutto questo grigio solo una linea gialla, che mi sembra come una speranza e quindi la seguo (ma cos’altro potrei fare?) e penso di nuovo alla mia prof. che mi avrebbe sgridato chiamandola così, ma questa è davvero una linea, prof., ed è pure gialla, ogni tanto si cancella, ogni tanto si spezza – forse era un adesivo e la colla si sa, col tempo … – ma poi continua e io ancora la seguo e c’è una piccola discesa dove continuo a camminare, è pulito adesso, ora lo vedo, e mi chiedo chi pulisca, e ci sono i binari 11, i binari 10, intrappolati nei cancelli…

Ma come si può non parlare della luce. Non ho ancora parlato della luce. Di quelle luci al neon dentro rettangoli perfetti, se solo sapessi come si fa potrei calcolarne l’area, forse così capirei quanto occupa la luce dentro il grigio e perché comunque non è abbastanza e prevale sempre lui, una sorta di penombra da reparto psichiatrico, e sì, forse siamo in psichiatria, chiedimi come sta marta tanto non te lo dico, sono l’infermiera o sono marta e qui le luci continuano a vibrare così tanto che a fissarle mi abbaglierei – e allora mi abbaglio -, saranno almeno una trentina di rettangoli disposti lateralmente lungo tutto il corridoio e continuano a vibrare, vibrano come a volerti indicare la via, come se non fosse poi l’unica, proprio tremano come le mani di marta, sdraiata dentro questo tunnel bestiale, che forse no, forse questa volta non si salva. E pensa se ci fosse un blackout istantaneo. Ma tanto quello lo pensi anche fuori quindi no, non pensarlo adesso, procedi e basta, come se non fosse questione di meccanica questo tuo riuscire a vedere, non più di quanto non lo sia sempre. E come si può non parlare dell’odore che si sente entrando qui, che lo scopri soltanto quando ci torni. Come quando si dice odore di ospedale. Ma tutti gli ospedali hanno lo stesso odore? I sottopassaggi secondo me no. Che natura bizzarra che hanno gli odori, mi torna in mente adesso mentre ci penso questo pensiero sugli odori che sono strani, e vale per tutto, vale per le lenzuola di casa tua, vale per tua sorella, vale per gli oggetti tutti di qualsiasi materia, e vale per questo sottopassaggio che odora di ferro. Ma prima non lo sapevi che odorava di ferro, ti sei accorta che è proprio ferro quando ci sei tornata e hai detto sì anche ieri odorava così. Forse del ferro che si scalda perché sopra i binari corrono i treni, e tu li senti tutti anche se non sai dove vanno ma hanno la stessa velocità che arroventa le rotaie e carbonizza le pietrine. E come si fa poi a non parlare del freddo, che c’è freddo come se fosse un nuovo inverno ma che conosco solo io, qui scompaiono tutte le stagioni, forse non sono mai esistite, forse se esistessero gli abitanti dei sottopassaggi loro lo saprebbero e forse esistono ma non si vedono, forse si nascondono quando passa qualcuno e dopo escono oppure si fanno più piccoli e sono qui adesso mentre cammino, magari mi passano tra le gambe e io penso sia una corrente d’aria che arriva dai cancelli, dai cancelli che proteggono dai treni che sfrecciano spostando l’aria. Che poi pare un ossimoro perché secondo me l’aria che spostano è rovente che si potrebbero cuocere i ravioli a vapore che ti piacciono, ma nell’atto di scendere qui si stempera e diventa freddissima, o forse è proprio che siamo sottoterra (infatti nemmeno prendono i telefoni) e entrando qui dentro istantaneamente si ghiaccia perché c’è l’umido dei sottosuoli dei sottoboschi dove crescono i muschi, e se non ci fosse questo pavimento grigio o se solo fosse meno fitto di piastrelle forse tra le fughe comincerebbero a spuntare delle erbe, muschi e licheni come dicevano i libri di scuola alle elementari – tutti aneddoti e fotografie – parlando della vegetazione tipica delle selve e dei microecosistemi che si creano a volte sulle cortecce dei tronchi quando c’è la giusta combinazione di aria e luce, cose del genere. Ma adesso qui di fianco a me è tutto pieno di cancelli; per ogni binario ce n’è uno, come se fossero dei livelli numerati da sbloccare, ma dal maggiore al minore come un procedere a ritroso, quindi dall’11 al 10, dal 9 all’8 e così via fino all’1, in una sorta di cammino di abbandono o liberazione, brama di minimalismo. E non si vede esattamente cosa c’è dietro, mi chiedo se qualcuno li apra mai, mi chiedo chi possieda le chiavi di tutti visto che c’è una toppa per ognuno e chissà se sono uguali o per ogni serratura una chiave diversa, e quindi un mazzo di 11 chiavi che deve anche essere pesante, di certo non uno di quelli che ti puoi agganciare nei passanti dei jeans. Sono dei cancelli altissimi, che in linguistica cognitiva questo sarebbe il prototipo più prototipo di cancello nella teoria del prototipo, lo penso mentre ci passo di fronte, che per tutte le parole ci sono svariate rappresentazioni mentali, ma se dici cancello io penso al cancello del sottopassaggio, che è un cancello di ferro altissimo, su cui vorrei arrampicarmi, che se fossi coraggiosa sì lo farei, per vedere meglio cosa c’è dietro, anzi sopra, anzi più in là. Si vede solo una luce abbagliante che questa volta è la luce che viene dalla stazione, come se il sole risiedesse lì, come se queste sbarre di ferro alto fossero le sbarre della tua cella fredda che dà verso l’esterno, e non si scorge niente ma solo una sensazione di passi, di affastellamenti frenetici di gente, a mucchi, come un’idea di movimento verso qualcosa o verso qualcuno che non ti è dato vedere né sapere, perché al massimo da queste profondità potresti scorgere l’avvicinarsi di due ginocchi contro altri due ginocchi – nell’atto di un abbraccio, di un bacio, di uno schiaffo? – comunque solo due ginocchi qualsiasi senza il resto del corpo persi tra tutti gli altri ginocchi di corsa in questa stazione. E sarebbe la stessa cosa se salissi queste altre scalette, potrei sporgermi un po’di più ma sarebbe poco ciò che vedrei, che comunque non mi basta. Sì, perché c’è come un’altra scala bloccata dal cancello, che mi fa pensare a venezia non so perché, forse certi canali avevano degli scalini abbozzati per scendervi e quando l’acqua era bassa si potevano intravedere, o forse erano i cancelli che restavano a metà tra acqua e non acqua e allora improvvisamente qui per me si potrebbe allagare tutto, e arrampicarmi sarebbe l’unica scelta che avrei, nemmeno questione di coraggio. E tutto ciò che da qui giù ancora non si vede io ora me lo immagino e allora mi immagino i treni che eccome se li sento!, e sento ancora gli annunci e uno dice gridando il treno regionale delle ore 14.50 per Ferrara è in partenza dal binario 9 invece che dal binario 6 piazzale Ovest, e penso che una volta ho letto una storia tristissima di una vecchina che andava sempre in stazione per anni per sentire ancora la voce registrata del marito morto sempre alla stessa ora ogni giorno, ma chissà adesso chi le registra queste voci che mi sembrano tutte voci finte, e un po’ penso che sia meglio così un po’ no, però che sicuramente io non avrei mai avuto il coraggio della vecchina. E ci sono i binari 7 i binari 6, e secondo me quei numeri sono fatti delle stesse lucette elettriche al neon dei rettangoli sopra, anche loro un po’ vibrano un po’ tremano, e ci sono altri annunci sempre con la stessa voce anonima di prima più fredda del freddo che sento, e altre persone che mi immagino correre perché sono in ritardo, altre persone che perderanno il treno e altre come me che sono in anticipo per un treno che non hanno e lo aspettano comunque anche se mica arriva, io penso che ognuno ha la sua destinazione nelle scarpe e gli altri non lo sanno. È sempre così e gli altri non lo sanno. Chissà quale tra tutte queste destinazioni scritte in maiuscolo nei tabelloni degli arrivi e le partenze, leggo qualcosa mentre continuo a camminare, sono sempre troppe, e penso a quanti luoghi ancora non ho visto di questa lunga lista e quindi figurati del mondo: Lecce, Porretta T., (Via Ravenna), Prato C.le, Brennero, Vignola, Imola, Roveri, Ancona, Poggio Rusco, Marzabotto, Salerno, Trieste C.le, Brescia, Parma. E sono luminose queste scritte tra il bianco e il blu, mi riportano a tutta la geografia che non conosco, e ci sono tutte le variazioni delle 14 su scala ascendente, orari che probabilmente cambieranno perché pensa che difficile coordinare una stazione con 26 binari, tu che a malapena coordini due gambe. Sento questi treni ancora sfrecciarmi addosso, sfrecciarmi sopra, sfrecciarmi dentro, e tanti divieti che dicono di non passare, di non oltrepassare, di non fumare, ci sono gli allarmi antifumo, non si può fumare qui. “Che bello papà sei già tornato!” dice il cartellone di una pubblicità, sarebbe bello sì papà incontrarti adesso alla stazione, scendi dal treno che arriva da Cagliari, hai un bagaglio leggero ma lo porto io, e poi altri cancelli chiusi altre toppe serrate, e ancora tutto uguale come in un altro specchio e io che avanzo e sono quasi arrivata alla fine come nel corridoio di un videogioco dove mi dico che ormai ce l’ho quasi fatta, non voltarti, che se mi giro è finita, come se fossi hermes che lo dice a orfeo ma sono anche orfeo, e quindi mi volto ma non succede niente, vedo solo il lungo spazio percorso vuoto di tempo, vuoto di gente, che potrei averlo sognato esattamente così, e invece è reale, tutto di cemento di mattoni di quelle cose grigissime di prima, e ci sono già le scale per uscire da questo scarto di vita che si è creato, che non so quanto esattamente è durato e che cosa esattamente è accaduto – forse tutto questo anche se le parole non mi bastano.

E Bologna adesso mi è tutta qui.

Che capisco solo ora che quella forse era la lunga preparazione a questo grande spettacolo, una specie di red carpet di periferia dove nessuno ti guarda, e la città ti si staglia di fronte così, anche se ancora non è città, ma è la stazione centrale piena di gente, che mi sembra come quando a Milano esci dalla metro gialla sul Duomo e fai una dopo l’altra le scale, e lui ti si costruisce di fronte sempre di più sempre di più, è sempre più bianco è sempre più alto, è sempre più immenso, forse perché tutto intero se non l’hai mai visto ti prenderebbe un male al petto, quindi bisogna guardarlo piano così, dargli il tempo che ti si formi davanti ti si infili negli occhi come a costruirlo mentre lo vedi, farsi sempre nuovo salendo tu dalle scalette della metro gialla – uscita museo del Novecento – che è davvero uno spettacolo raro come questa Bologna che ho di fronte adesso, che non ha duomi, ma questo ammasso di gente è tutta la sua bellezza, come se questo fosse un passaggio obbligato per entrarle dentro se non ci sei mai stato, ma anche se come me oramai ci vivi. E allora il mondo è tutto qui. Da qualsiasi parte lo si voglia vedere è proprio tutto tutto qui. Qui che ci sono mille facce, questo è un posto perfetto per fare un catalogo delle facce della gente, prenderne venti a campione, dire facciamo un esperimento sociale, le facce più strane e nessuno ci fa caso a te perché sono tutti di fretta, c’è la polizia, ci sono persone con i capelli colorati a pois, un sacco di valige rosse. Mentre la voce registrata, sempre quella, quella di prima, freddissima (ma forse adesso un po’di meno), continua a ripetere: Attenzione!, adesso quasi più viva, in questo suo ripetermi: Attenzione!, che quasi me lo dice a fior di labbra, ancora: Attenzione!, che sovrasta gli altri annunci che non sento. Penso soltanto che ha ragione, che ce lo dimentichiamo sempre eppure oggi Bologna me lo grida, che le devo prestare attenzione. E io mi fermo, e vedo solo altre linee in movimento – che non sono segmenti, no prof., questa volta deve ascoltarmi – sono tutte linee dove ogni cosa intorno a me è un puntino e non esistono lavagne, possiamo solo raccontarcelo, che da A a B lo spazio non finisce, che un punto tira l’altro e porta altrove, che da qui poi sono infinite le strade come le combinazioni delle parole al di là della definizione di distanza, e ancora: Attenzione!, che questa voce la vorrei sentire in filodiffusione in tutte le strade del mondo, in tutte le lingue del mondo affinché tutti ma proprio tutti lo capiscano. Quindi: Attenzione! così che poi non ce lo dimentichiamo.
Che alla fine è tutto tutto qui.
E non è mica poco.

(Soprattutto se poi me lo racconti).


Chiara Acri
Nasce sul mare, dove si laurea in Lettere moderne. Vive a Bologna, dove studia Scienze Linguistiche e tutto ciò che abbia a che fare con il linguaggio, la parola e la poesia.

44.409561, 8.842962 Navebus

di Irene Rolfini


La prima cosa da sapere – la prima cosa che ho saputo – è che noi, qui, siamo a Ponente. Il Ponente è a sinistra; il Levante a destra. A Ponente ci sono le fabbriche e gli operai; a Levante ci sono le spiagge e i ricchi. In mezzo c’è Genova, ma per questo bisognerà aspettare almeno le medie. Poi c’è il dentro, e il dentro chiaramente è in salita. Quindi ci sono tre direzioni: a sinistra, a destra, e in salita.

Quando avevo otto anni, “La pianta del tè” di Ivano Fossati era una grande hit del salotto, cioè la stanza dello stereo. Lì io e mio padre sedevamo, muti, immobili, ad ascoltare i dischi. Fossati era quello che capivo meno dei tre (De André, De Gregori e Fossati: imparai realmente a distinguerli solo quando li sentii nella stessa canzone), e per questo a volte pensavo che dicesse cose molto intelligenti, a volte che mi prendesse in giro. Diceva che Genova si vede solo dal mare, ed era una frase che non significava nulla, perché dal mare non vedi mica le case e le strade e la gente, cosa vuoi vedere dal mare?

E comunque i gerani piacciono solo ai vecchi.

Il Ponente operaio, si diceva quando ero bambina, e sembrava che le fabbriche fossero state messe a Ponente perché già c’erano gli operai ad aspettarle. E cosa facevate prima? Prima fino a qui c’erano i campi, e al mare andavamo a Cornigliano. Cornigliano: l’Italsider, il grande fumo nero dalla torre bianca e rossa, e sul ponte un puzzo di veleno e uova marce e disprezzo.

In mezzo al Ponente c’è Pegli, che è tipo la Florida, perché i grandi dicevano che quando fossero andati in pensione e avessero finito di pagare il mutuo e crescere i figli avrebbero comprato casa a Pegli; ma lo dicevano per scherzo, figurarsi! chi ce li ha i soldi!, e comunque a Pegli hanno tutti la puzza sotto al naso. Lì c’è il mare, il mare vero: la Passeggiata, il Gelato, e i Bagni. C’erano Pescatori sul molo, speriamo che non se li mangino quei pesci, e le donne che finivano presto di lavorare si fermavano a Pegli a prendere il sole. A bagnarsi no, certo, mica siamo matti: guarda la schiuma, e poi qui è pieno di catrame, là c’è il Porto Petroli.

L’idea di un Porto Petroli mi è sempre piaciuta, innanzitutto per il plurale, perché indica una molteplicità di petrolio, una tale abbondanza e diversificazione che richiede un porto tutto per sé – di cui, come di tutto il resto, non si vedeva nulla: era “dietro”. C’era inoltre qualcosa di misterioso nel Porto Petroli, qualcosa di scabroso, a cui i grandi non accennavano nemmeno: si limitavano a fare quella espressione – le labbra serrate di sbieco, le sopracciglia rapidamente alzate e un breve sbuffo dal naso – che usavano per Un Brutto Male.

All’inizio della passeggiata di Pegli, dopo le giostre, sul primo molo, parte un piccolo traghetto che viaggia diritto da lì al Porto Antico e ritorno. Questo piccolo traghetto fa parte del Trasporto Pubblico Locale, così se sei residente costa quanto una corsa in autobus, e si chiama Navebus, ed è una delle mie cose preferite di questa città.

Ora io faccio la spacchiusa e dico “dopo le giostre, lungo il molo”, ma che sia chiara una cosa: a Genova o le cose le sai, o non le trovi: la strada dove devi passare è sempre nascosta, o dissimulata, o semplicemente non sembra possibile che conduca realmente da qualche parte. Oltre alla sinistra, alla destra e alla salita, c’è un’altra direzione: il dietro.

La prima volta che ho preso il Navebus sono arrivata nel punto indicato da Google Maps un’ora prima dell’orario di partenza, ma affatto convinta che quello lì fosse un posto da dove potesse partire un traghetto ho iniziato a vagare tutt’attorno come una deficiente, non solo lungo la passeggiata a percorrere un secondo e un terzo molo ma persino facendo il giro di un parcheggio perché boh non si sa mai (maniman!); sconfitta, ho addirittura chiesto al tipo delle giostre, che mi ha guardata come se fossi uno stronzo di cane – ossia, nella lingua locale, amabilmente – e mi ha risposto “là”, indicando il mare. Con il passare dei minuti si sono aggiunte altre persone, ugualmente sbandate ma non tutte ugualmente disposte ad ammetterlo, e collettivamente ci siamo aggregati nel punto che ci sembrava più ragionevole dal punto di vista di una barchetta; sbagliavamo, ma a pensarci meglio non aveva senso preoccuparsi perché un traghetto non è che sbuca all’improvviso come un treno da una galleria, lo vedi arrivare e hai tutto il tempo per avvicinarti e archiviare l’infantile incertezza di poco prima e passare alla smania dell’attesa e ai piani per accaparrarti il posto migliore.

Il servizio del Navebus cambia spesso compagnia, per cui il battello che ci viene incontro è una sorpresa: nella bella stagione potrebbe essere un catamarano lungo 40 metri che contiene 400 persone, ma d’inverno potrebbe essere una motonave di 20 metri che ne contiene 150. Metà dei posti sono al chiuso, il resto si distribuisce sul tetto oppure giù tra la poppa e la prua. Come tutti i battelli, ha interni in legno e formica, compresi sedili panche e tavoli; sul tetto, sedili di plastica, concavi, da cinema estivo. Come tutti i battelli, è sempre più rumoroso di quanto ti aspetti e nell’insieme riesce a non sembrare affidabile e sembrare proprio giusto così com’è. Se non ci sei abituata, una barchetta che si stacca dal porto e prende il mare ha qualcosa dell’aereo che si stacca da terra: il primo pensiero è “ma non penso proprio”, poi viene l’orgoglio e la meraviglia per l’ingegno umano e infine la placida fede nella scienza e nella tecnica.
Siamo tutte in gita. Ci sono dei veri turisti: a me sembra veramente strano vedere qui delle famigliole francesi e delle escursioniste tedesche, ma Pegli è oggettivamente un posto carino e soprattutto ospita, su su nel dentro, l’unico campeggio della città. Ci sono soprattutto dei genovesi del Ponente e dell’entroterra che hanno deciso di fare qualcosa di insolito questo sabato pomeriggio; alcune stanno accompagnando a fare un giro per la città i parenti venuti a trovarle, e si vede che sono molto contente della gita in battello che hanno programmato per loro.
Siamo per lo più assiepate nei sedili sul tetto; è giugno, ma io indosso un cappello E una giacca, e gongolo soddisfatta per la mia sopraffina intelligenza. La corsa al posto di sopra è una mossa presto rimpianta: i foresti sottovalutano quanto freddo sia il vento sul mare. Quello che i miei concittadini sottovalutano, invece, è quanto sia monotona e povera di indizi la vista sulla città: nel corso del viaggio li sento chiedersi “ma dove siamo qui?” e “cos’è quello?” “cosa?” “quello!” decine di volte. Mi chiedo se trovino desolante il panorama, se si siano un po’ pentite della gita e se addirittura un po’ di vergognino delle brutture messe in mostra ai parenti di fuori; decido che stare in mare sul tetto di un battello è sempre una figata, e la gita è stata comunque un successo.

Dopo essersi allontanato dalla costa puntando verso il vasto mare all’orizzonte, il Navebus sterza e s’infila nel canale tra la diga foranea e la pista dell’aeroporto. Quasi non abbiamo tempo per sbirciare oltre l’ingresso al porto di Sestri Ponente, e già stiamo superando il Porto Petroli. Non è possibile vederlo da qui, perché è coperto da un molo prima e dalla pista dell’aeroporto dopo; è davvero il segreto meglio custodito di questa parte della città, tanto che prima di mettermi qui a scrivere credevo che le petroliere più grandi non entrassero nel porto ma si fermassero a una piattaforma off shore molto più al largo della nostra rotta. La piattaforma da qui sembra proprio piccola come quelle degli stabilimenti balneari: sembra una boa con una sorta di lampione in mezzo. Invece no: le piattaforme off shore sono tutte fuori uso da almeno 15 anni; sono contenta che le abbiano lasciate lì, fanno molto oilpunk. Insomma anche le navi più grosse si infilano in quel pertugio, poi attraccano a uno dei tre moli e si collegano agli oleodotti del Porto Petroli: benzina, petrolio e diesel spediti direttamente alle raffinerie, i materiali chimici nei punti di stoccaggio e distribuzione (per gli amici: “i depositi”) a terra. I depositi non sono sulla riva, ma a monte: dietro la strada e le case, dietro i binari della stazione, qui dietro.
Da queste parti nei frizzanti anni Ottanta sono esplose delle cose. Nel 1981 una nave cisterna, la Hakuyoh Maru, è stata colpita da un fulmine ed è saltata in aria proiettando lamiere infuocate tutt’attorno; sei i morti, dodici gli ustionati, e quattro le medaglie d’onore ai piloti che riuscirono a portare al largo le altre petroliere prima che esplodessero pure loro. Nel 1987 invece s’incendiarono tre depositi di metanolo della Carmagnani, quelli qui dietro, a 300 metri dalla scuola: quattro i morti, un ferito grave e dodici persone intossicate, per lo più operai della ditta. Queste sono cose che non si sanno, né a Genova né tanto meno a Levante.

Quindi la prima cosa che si vede davvero è l’aeroporto. Il Navebus costeggia la pista, protesa sul mare; quando gli aerei atterrano ti chiedi se la mira del pilota sarà sufficiente a beccare quella strisciolina d’asfalto in mezzo al mare. Che poi la pista non è *così* corta: fa 3 chilometri, invece dei 4 di un aeroporto più grande come Malpensa; ma l’effetto è quello che non sia l’aereo che si stacca da terra, ma la terra che finisce sotto l’aereo.

Lungo l’interminabile pista i passeggeri attorno a me iniziano a manifestare segni di disagio, almeno finché non si vedono gli aerei, che niente da fare è come vedere i cavalli dai finestrini del treno: fanno subito allegria. Un’altra volta sul Navebus mi è passato sopra un aereo appena decollato: è stato come al cinema.
La pista nasconde tutto il porto di Sestri Ponente, e per me è davvero deludente che nemmeno da qui si veda la Fincantieri: uno dei più grandi e importanti cantieri navali del Mediterraneo, oltre 250mila metri quadrati di cantiere navale di cui, dalla città, non si vede un fico secco, se non altissime gru in fondo in fondo, e una massa dei lavoratori che entrano ed escono dai cancelli.
Non so quanti siano lavoratori della Fincantieri: la maggior parte delle tute hanno nomi diversi sulla schiena. Sono per lo più terzisti, non hanno accesso alla mensa, non hanno accesso agli spogliatoi, quindi in pausa pranzo li vedi sempre vestiti da lavoro nei supermercati e nei bar lì attorno.
Ho abitato davanti all’entrata della Fincantieri per oltre un anno; non posso dire nulla del suono dei cantieri, perché si confondeva con quelli dell’Aurelia e della ferrovia lì accanto in un unico ininterrotto rumore di macchinari – se non per il suono della sirena che segna l’inizio e la fine della giornata di lavoro. È proprio una sirena, come nei film sulla guerra quando ci sono gli allarmi antiaerei; senza modulazioni di tono o di volume, si tace improvvisamente come è iniziata, e tutto sommato è piacevole, come possono esserlo le campane delle chiese se è il tuo genere.

Prima c’erano “i trasfertisti” che abitavano nelle poche case dei pochi sestresi che avevano una casa da affittare; a volte erano napoletani, a volte no. Poi ci sono stati “gli extracomunitari” e c’erano più case da affittare. Adesso gli operai della Fincantieri sono spesso bengalesi, e quando prendi l’autobus che dalla stazione di Piazza Principe va a Ponente, e vedi un ragazzo scuro pieno di valigie che si guarda attorno nervosamente e controlla cento volte il cellulare, prima o poi ti chiederà dove si scende per la Fincantieri. E io ne sono contenta, perché c’è lavoro, e queste parole “c’è lavoro” si portano dietro tutta una carovana di significati che proietto generosamente sulle bambine bengalesi che vivono dove ho vissuto. Patetico: lo so. Nessuno è perfetto.

La pista nasconde anche tutto il resto del porto di Sestri Ponente, che è stato riqualificato e ora si chiama “la Marina”. Fa un po’ strano: sembra che in quell’area, dove ci sono i magazzini della TNT e delle Poste e c’era lo stabilimento della Piaggio (facevano gli aerei!), insomma la tipica terra desolata che circonda un aeroporto, ci sia stato fotomontato sopra alla cazzo di cane un pezzo di Porto Antico: le barchette, i condomini moderni, i locali. Ci sono andata poche volte; è sempre pieno di gente. Nel porto di Sestri c’è anche la Lega Navale Sestrese, dove alle elementari ho imparato delle cose sui nodi e i venti e poi a governare un Optimist. La cosa notevole degli Optimist (sono delle barche a vela per bambini) è che chiunque li descriva, che sia Nabokov o Carver, userà la stessa espressione: “vasche da bagno”. Fateci caso.

Dopo tre chilometri e rotti di pista di aeroporto, quello che veramente ci vorrebbe è un bar dentro il Navebus. Finora, a parte l’aereo, è stata un po’ una palla; siamo strette in una corsia di mare, di qui la diga di qua la pista, e troppo lontane dalla costa per vedere alcunché della città. Alcune persone sono scese all’interno borbottando contro il vento, e sono state già rimpiazzate. Noto che i turisti stranieri hanno famiglie meno rumorose delle nostre, ok, ma molto più ingombranti, dato che si portano appresso dei lunghi adolescenti che da noi si sparerebbero piuttosto che andare in vacanza con i genitori con tanto di gita sul battello. Il gruppo più entusiasta è composto da due famiglie di amici: hanno un marcato accento del Lazio e si stanno convincendo che il video che una delle ragazzine deve portare come compito delle vacanze di geografia si potrebbe girare dal battello.
La pista dell’aeroporto finisce e in perfetta continuità con essa inizia l’acciaieria. La differenza la vedi subito perché la pista dell’aeroporto è erbosa, l’acciaieria meno. Siamo tutti molto delusi perché la pista dell’aeroporto si era protesa un sacco sul mare, quindi speravamo che una volta superata ci saremmo avvicinati alla costa. Ma l’acciaieria è la costa.
L’acciaieria si è chiamata Ansaldo, Ilva, Italsider, Riva, Arcelor-Mittal. Io la conosco come Italsider.

I serbatoi, le ciminiere, gli altiforni, i viadotti, i cumuli di carbone, i macchinari, i fuochi, i capannoni, i treni merci: il mare di Cornigliano. C’è sempre stato qualcosa di profondamente sbagliato nell’acciaieria: qualcosa di mostruoso. Il fumo, certo, l’inquinamento, la puzza, ma di più: mostruoso. La bruttezza e la mole e il dominio. Era troppo; era veramente troppo. La fabbrica dove lavorava mio padre era una fabbrica; l’Italsider era il luogo del Male. Però questa è l’Italsider vista dalla città. L’Italsider vista dal mare sembra solo un poco peggio del resto dei depositi, magazzini, stabilimenti più o meno abbandonati che abbiamo visto fin qui. La caratteristica che mi impressiona, da qui, è la sua vastità: da qui capisco che è grande almeno tre volte quanto avessi creduto finora.

Finora non abbiamo visto nulla della città, o meglio non abbiamo visto nulla di riconoscibile come parte reale della città. Da Cornigliano intesa come case, strade e persone, ci separa almeno un chilometro di acciaieria. Ma: adesso. Sul mare sbocca un corso d’acqua, la costa si interrompe, si ritira, e di corsa il nostro sguardo risale chilometri di container e finalmente ecco un pezzettino di Genova: un ponte su cui vediamo autobus e macchine e motorini, quel ponte con il puzzo di uova marce di tanto tempo fa. Ma dietro quel ponte ce n’è un altro.
Sinceramente, io l’ho sempre conosciuto come “il viadotto del Polcevera”. Finché è stato su, non ho mai sentito nessuno nessuno mai ever chiamarlo “Ponte Morandi”. Dalla strada che collega Cornigliano a Sampierdarena, così come dal treno che corre parallelo appena più in alto, se non hai voglia di guardare quello che l’acciaieria ha fatto alla costa, ti volti e guardi la Valpolcevera e di conseguenza il viadotto. Se abiti a Ponente, è facile che a un certo punto della tua vita inizierai a fare quella strada almeno due volte al giorno. Il serbatoio di qua, il viadotto di là; il viadotto di qua, il serbatoio di là.
Poi, un giorno: due monconi. Ma lasciamo stare.
Poi, un giorno: un altro viadotto. Ed è adesso che dall’altoparlante del Navebus esce una voce.
È un membro dell’equipaggio, che sta recitando, con discreta scioltezza, una descrizione accattivante e banalissima dell’industriosa città che ci si dispiega davanti. È stato muto finora, ma adesso ci invita ad ammirare il nuovo ponte San Giorgio, meraviglia dell’ingegneria e già simbolo della rinascita economica di Genova, un ponte che è metafora del legame tra la città del presente e quella del glorioso passato mercantile prima e industriale dopo eccetera. A terra, a Sampierdarena, penserei di essere nel Ponente operaio; sul Navebus vedo bene che è qui che la città delle fabbriche si interseca con la città del porto.

Adesso siamo vicini all’azione, a un centinaio di metri dall’estremità dei grandi moli, lunghi mezzo chilometro; so che si chiamano “ponti” e che lo spazio a riva tra uno e l’altro si chiama “calata” e che “terminal” invece è il nome dell’azienda che gestisce l’arrivo il transito la partenza delle merci; e qui finiscono le cose che so.
Le cose che vedo: gru di diversi colori, tipi e grandezza; alcuni rimorchiatori arancioni; un’infinità di serbatoi di non so cosa, alcuni più stretti su palafitte, altri larghi come palazzetti dello sport; diverse navi cargo tra cui (con un po’ di emozione) la MERAK, che mi è familiare dato che bazzica dalle mie parti e la vedo spesso quando vado a nuotare a Vesima; altre navi che non so cosa facciano e a me sembrano dal malconcio all’abbandonato; portacontainer; container.
I container. Credo ci sia tutta una poetica del container tipo quella del capannone del Nordest, e se non c’è dovrebbe. Anni fa ho ascoltato un audio documentario lunghetto sui container, dall’evocativo titolo: “Containers”. I container sono dei parallelepipedi di metallo di grandezza standard, fatti apposta per essere impilati e accatastati, sollevati, caricati, scaricati, e la loro invenzione fu una rivoluzione, perché prima, una non ci pensa: le robe le spostavano una per una, e si perdeva tempo a decidere come e in che ordine caricarle e a calcolare quante ce ne sarebbero state – e inventariarle! E dopo: l’infrastruttura, il lavoro, lo spazio, le navi e i treni, ogni cosa e persona che ha a che fare con un porto s’è fatta a misura di container, al servizio dei container. Il container stesso è una unità di misura: la portata delle navi si misura in numero di container trasportabili, così come i campi di grano si misurano in ettari e le distanze nei film si misurano in campi di football.
Durante la pandemia ho sentito tanto della bolla dei noli, ossia la crescita vertiginosa del prezzo del trasporto via mare causata dall’insufficienza del numero di container e portacontainer. Per tutta la mia vita, dai finestrini dell’auto ho visto i container fermi, arrugginiti, a stazionare negli appositi depositi lungo le strade della città – non li ho visti in movimento: non li ho visti dentro il porto. Mi ero sempre chiesta perché ce ne fossero così tanti; mi ha scioccata sapere che potessero non essercene abbastanza.

La nostra guida ha preso a spiegarci a grandi linee cosa stiamo guardando, indugiando quando può sui particolari storici: in quel terminal passa la frutta, là passano i prodotti forestali; è qui che alla fine degli anni Sessanta fu costruito il primo terminal container del Mediterraneo; quello è un bacino dove si infilano le navi per essere riparate e poi si alza una diga e si svuota l’acqua così ci si può lavorare – navi di dimensioni ridotte rispetto a quelle più recenti, per cui serviranno bacini più grandi, butta lì il product placement dell’autorità portuale; quello è un rimorchiatore, ossia una nave fatta apposta per accompagnare e trainare e spingere le navi nelle manovre di ingresso e uscita del porto. Lì invece c’è una scritta del Calp che dice “BASTA ARMI AL PORTO DI GENOVA”, ma questo la guida non lo dice.

Si vede la Lanterna. È il momento di iniziare a registrare il video: la ragazzina si alza in piedi, appoggia la schiena alla ringhiera dando le spalle alla città, mentre sua cugina la riprende col cellulare e il resto della compagnia fa il tifo. Dice che Genova è in Liguria ed era una Repubblica Marinara e ha fatto parte del triangolo industriale. La performance è pessima, ma riceve un coro di “bravissima” incrinati solo dalla preoccupazione per la qualità dell’audio: il motore fa un casino bestiale, non so cosa possa venirne fuori, come gli sia venuto in mente di girarlo qui, chissà.
La Lanterna dal mare fa la sua figura. Da terra, da vicino, è una mezza delusione: perché non sembra affatto alta né imponente, e perché si trova in un un’area industriale, tutta svincoli e camion e cemento. Anche qui è nascosta dalle infrastrutture del porto – strutture di acciaio che credo siano carroponti – ma dal mare la si capisce un po’ meglio, la si vede come andrebbe vista. Sarebbe bello essere qui di notte, però.

Per noi qui, la Lanterna è la svolta. Abbiamo le orecchie congelate e sono trenta minuti che guardiamo acciaio e cemento – a sinistra la costa, a destra la diga foranea che ci nasconde il mare – e non vediamo l’ora di vedere qualcosa di bello, non vediamo l’ora di vedere il porto per cui abbiamo pagato il biglietto: con le navi da crociera e i motoscafi e gli yacht e il Porto Antico e la città tutt’attorno, quella roba lì di Fossati dai. Ce lo meritiamo. Il Navebus, in effetti, svolta: vira a destra alla fine dell’area dei depositi della Esso ed entriamo nel golfo.
Passiamo accanto a una portacontainer; non è la prima che vedo, ma è la prima che vedo da vicino, ed è imponente, è uno spettacolo. La
ggiù in fondo le navi passeggeri, anche quelle sono delle belle bestie, ma non importa perché qui vicinissima si alza una nave da crociera, una vera nave da crociera, gesù non è nemmeno una di quelle davvero grandi, è folle.
Si vede un’altra cosa, adesso: Genova.
Eccola, Genova. Inizia con un grattacielo datato dalla forma di una grossa matita che non si è mai chiamato altrimenti che “il Matitone”, poco prima dei traghetti; inizia sotto forma di palazzoni che s’inerpicano su una ripida collina, che dopo le crociere di Stazione Marittima diventano case più piccole, più vecchie, mentre dietro c’è verde, tantissimo verde, il verde di una montagna – piccola, ma montagna. La città si alza e si abbassa, si avvicina e si allontana, si compatta e si disperde, i suoi elementi sempre più eterogenei – e ce n’è tantissima. Finora la città è stata una linea retta che correva parallela alla nostra rotta sul mare: una città orizzontale. Adesso la città ci circonda da tutte le parti, si chiude intorno a noi.

Vorrei che il traghetto rallentasse, e mi lasciasse il tempo per metterla a fuoco, riconoscerla, capire di quale dietro sto guardando il davanti e dare nomi e tracciare confini in questo casino urbanistico a quattro dimensioni. Sembrava così lenta prima questa barchetta, e invece già i vecchi magazzini del cotone (i nuovi Magazzini del Cotone) mi chiudono la vista perché stiamo entrando nel Porto Antico ed è tutto finito.
Fino a un minuto fa la nostra prospettiva è stata diversa, è stata eccezionale; adesso non siamo più al largo, non c’è niente da vedere che non sia normale, per molte familiare. Le più dinamiche si alzano, danno le spalle alla città che si avvicina e scendono la scaletta a poppa per aspettare in coperta che il battello attracchi. Si sta bene qui sotto, al chiuso; mi ero dimenticata di come si stesse bene in un posto riparato dal vento. Mi siedo a un tavolino per questi pochi minuti necessari all’attracco, e mi guardo per bene attorno dato che alla partenza ero corsa su. Qui si sono fermati fin da subito gli anziani e le famiglie con i bambini più piccoli, e mi dico che la prossima volta anche io voglio fermarmi qui sotto, come se fossi una del posto, una che si porta dietro un libro e guarda distrattamente fuori dal finestrino di un battello e sa perfettamente cosa è quel coso e qui dove siamo; una vera genovese, gente di mare con questi cieli sopra il mare.
Bene, è il momento di scendere dal battello con passo malsicuro e intanto stupirsi della coda pazzesca di persone che aspettano di salire per il viaggio in direzione opposta. Quanta gente al Porto Antico; che palle questo posto, che anticlimax dopo un viaggio così. Mi prendo il tempo di accendere la sigaretta per realizzare che ora che sono a Genova non ho niente da fare, alla fin fine. Così mi giro a ponente e inizio a camminare verso casa.


Irene Rolfini
Nata a Genova nel 1979 e su internet nel 1998. Stancacervelli. Per lo più leggo.

44.487890, 11.372872 Il precorso

di Maria Luisa Legéria Miraglia


Il risveglio. Il momento cruciale in cui scendo a patti con il fatto che la mia dimensione naturale, quella onirica, ha raggiunto la fine del suo ciclo quotidiano. Il momento in cui mi scatto una fotografia emotiva che potrebbe diventare preziosa, come ultima testimonianza di una me intatta, prima di una fatidica giornata in cui accadrà qualcosa di inatteso e sconvolgente. Nelle ultime settimane è diventato il momento in cui languisco in un ridicolo capriccio infantile, per allontanare il più possibile il movimento corporeo traumatico che una vita da pendolare comporta. E non parlo del viaggio in sé, quanto del percorso tra casa e luogo di partenza, quel viaggio grigio che bisogna pianificare accuratamente per non rischiare di mancare la propria coincidenza, parola perfetta, così casuale, così giusto sottolineare quanto speranzosa sia la nostra pianificazione. Ogni spostamento mi sembra un pellegrinaggio in cui ognuno esercita la propria fede nelle infrastrutture ferroviarie e nelle proprie strutture cigolanti. O forse sono semplicemente pigra.
Apro gli occhi e sono a letto. La luce filtra dalle persiane che non lascio mai del tutto abbassate. Gli oggetti immobili nella mia stanza sembrano acquisire spessore solo quando spezzano i raggi del sole con la loro opacità tridimensionale.
Ancora mezza addormentata, mi sento piatta anche io in questo momento. Stesa su una superficie orizzontale come marmellata sul pane. 
Penso al movimento che tra sempre meno tempo dovrò compiere per spostarmi nello spazio. Alzarmi significa modellarmi in tre dimensioni a partire dal disegno che ho impresso sulle lenzuola con il mio corpo. La conquista della posizione eretta è una tappa evolutiva non da poco. La mia attuale bidimensionalità mi fa sentire l’ombra di me stessa, eppure conservo la memoria del mio corpo pieno che si muove in casa. In testa mi proietto questo film d’azione. Mi inquadro dall’alto e vedo un cerchio che lascia piccole orme tratteggiate. Poi mi inquadro dal basso e vedo la sagoma delle pantofole che segue dei binari abitudinari. Poi basta mi alzo.
Eppure non basta, fare il primo passo non basta. Percepisco una frizione tra la mia resistenza cocciuta e vana e l’ineluttabilità del tempo che passa, del mio autobus laggiù in strada che passa, del treno lontanissimo che passa. I miei passi che dovrebbero portarmi sempre più vicina alla meta deragliano, ma non muore nessuno. Mi portano in bagno, poi in cucina poi in camera cercando qualcosa, trovando tempo perso. Il mio indugiare è quello di un bambino, troppo distratto da un’infinità di dettagli e pensieri che acquistano valore al momento meno opportuno. L’adulta responsabile che ogni tanto ospito invece mi elenca gli indirizzi e le distanze che devo coprire entro le 10:
  1. la fermata del 27B, direzione Corticella. È sulla via Emilia, cinque minuti a piedi da casa mia.
  2. Il binario del treno 3920, linea Ancona-Piacenza. Di solito è il 4 o il 1, quello dove si può ancora vedere la ferita di vetro lasciata da mani nere il 2 agosto 1980. Circa mezz’ora di autobus da casa mia.
  3. L’edificio a Reggio Emilia dove sto seguendo un corso. Più di un’ora e mezza da casa mia.

Mi sembra più appropriata questa misurazione della distanza nel tempo piuttosto che nello spazio, una misura per accumulo, spezzettata in diversi mezzi dove passo il tempo ferma seppure in movimento. E quel momento in cui arrivo e mi fermo non ci sarebbe mai stato se prima non avessi fatto quel fatidico primo passo fuori dal letto, fuori dalla stanza e poi fuori di casa. Ma io quel passo non lo voglio fare. Giro in tondo. Provo a disegnare una spirale di passi con i miei spostamenti orfani di direzione, provo a fingere che non sia così grave mezz’ora di ritardo, provo a calcolare quanti altri treni potrei prendere, ora che ho perso quello abituale. Sarebbe più facile non andare proprio? Forse. Sarebbe più giusto avvisare? Sicuramente. Non faccio nulla. 
Non è vero. Lavo i piatti della colazione. Mi pettino evitando di guardarmi allo specchio. Mi infilo le scarpe. E poi percorro il corridoio nella direzione contraria a quella prevista, mi sono ricordata di aver lasciato la finestra aperta. La chiudo anche se preferirei lasciarla aperta tutto il giorno. Guardo il fuori attraverso il vetro. Non ho ancora voglia di uscire. Penso che prima o poi dovrò farlo. Ancora non lo faccio. Ora mi accorgo che è diventato una specie di sfida, o di gioco. Quanto posso ancora indugiare nella protezione di queste mura uterine prima di doverle lasciare? Mi accorgo di non provare alcuna emozione se penso alla prospettiva di non uscire. Non vergogna verso le mie responsabilità disattese, né piacere per la potenziale conquista di una giornata di libertà imprevista. Forse l’antimotore più forte è il pensiero del bagno di folla che mi aspetta nel mezzo pubblico, io che mi sento ancora tiepida. Fino a una manciata di minuti fa crisalide arrotolata in un grembo morbido di lenzuola, non ho nessun interesse a farmi schiacciare da corpi sconosciuti e casuali, dall’odore e dal calore della gente mentre esiste.
Basta. Apro la porta. Mi formicola l’alluce, mentre mi porta a varcare una soglia che non mi è mai sembrata così definitiva. Non è vero che fare il primo passo non basta, basta ricordarsi di cedere il comando al pilota automatico. Prima o poi arriverò.

 


Maria Luisa Legéria Miraglia
Chiave di volta in volta. Nasce ieri e continua ogni giorno a improvvisare, per vocazione. Non è di qui.

39.919235, 8.583068 Messa in essere

di Martino Pinna


Esco di casa dalla porta della cucina, ma ho dimenticato qualcosa, il piede destro è già fuori, l’altro resta fermo, come il piede perno del basket. Con il piede destro, quello fuori, potrei muovermi su tutta la superficie dello scalino, forse perfino scendere di sotto, addirittura andare via e fare una passeggiata, fregandomene del resto del corpo, ma il sinistro non vuole e diventa l’asse immobile dei miei spostamenti. Non sono né dentro, né fuori. Ho dimenticato le chiavi di casa? No, perché sto uscendo dalla porta di cucina. Allora ho dimenticato il telefono? Infilo la mano in tasca, mi palpo come nelle perquisizioni e ho la conferma: non ho il telefono. Me lo porto dietro quando esco perché a volte faccio fotografie alle cose che incontro. Sempre tenendo il piede sinistro come piede perno allungo il braccio fino al tavolo in legno della cucina, un bel tavolo antico, prendo il telefono, lo metto in tasca e stacco il piede da terra. Ho compiuto un passo, sono fuori. Chiudo la porta e uno spostamento accelerato mi porta trenta metri avanti e due anni indietro.

Sono qua, poco più in là, in un’altra stagione, quando il glicine si stava mangiando la casa. Gli operai comunali avevano appena tagliato l’erba alta di fine aprile o primi di maggio, non ricordo più. Era metà erba e metà plastica, con il decespugliatore succede così, il prato delle cunette e la plastica diventano come coriandoli. Ho scattato una foto.

Questa plastica è impossibile da raccogliere, credo. In realtà conosco persone che lo fanno. Lo chiedo ai miei amici Enrico ed Elisa, che hanno l’abitudine di raccogliere i rifiuti. Enrico, che ama fare grafici per tutto, mi mostra un grafico sulla loro operazione di raccolta dei rifiuti a Salsomaggiore, dove vivono. Mi spiega che tutto è iniziato da piccolo. Stava camminando a Tabiano Terme con suo padre, ha mangiato una cicca, crede una Big Bubble, e ha buttato la carta a terra. Suo padre l’ha sgridato in un modo che Enrico si ricorda ancora, e per lui fu come una scossa. E poi una volta, mi dice Enrico, molti anni dopo, sulla spiaggia, mi pare quella di Orosei, insieme trovammo un monitor che portammo al cassonetto. Un monitor in spiaggia, incredibile che io abbia dimenticato un’immagine così. Però una volta ho trovato un monitor Olivetti in uno stagno. Negli anni il fastidio di Enrico per i rifiuti è aumentato finché si è messo a raccoglierli.

Da una parte ci sono i rifiuti che Enrico raccoglie quando cammina per strada e senza sforzo, sta pensando ad altro, però li vede e li butta via, ci sono tanti bidoni e l’atto di raccogliere non porta ad eccessive deviazioni dal percorso. Mi spiega di aver provato a tracciare questo tipo di raccolta per capire l’entità in un anno, ad esempio, ma ha lasciato perdere. L’alternativa invece sono vere e proprie spedizioni mirate: uscire di casa per raccogliere. Enrico e di solito anche sua moglie Elisa e la figlia, prende il bastone raccogli tutto, quello con la manina per raccogliere la spazzatura, due o tre sacchetti e scelgo la zona, mi spiega Enrico.

Ha un file dove traccia quante buste ogni giorno, settimana, mese ha riempito. Non c’è solo plastica, c’è spazzatura in generale. Una cosa che gli dà grande soddisfazione solo le pile: quando trova le pile in giro Enrico è veramente felice, perché le pile sono pericolose. Quest’anno per ora ne ha trovato una decina, le tiene a casa e quando ne ha un po’ va a portarle nell’apposito raccoglitore. Il fatto di togliere dalla falda il piombo gli dà molta soddisfazione. All’inizio queste spedizioni toglievano tempo alla pulizia della casa. Enrico stava esagerando. Era strano vedere il vialetto fuori di casa più pulito dell’interno della casa, mi dice Emnrico. Quindi si è dato una calmata. Lo fa sempre appena può, a volte da solo, a volte con bambina e moglie o con chiunque si trovi. Gli oggetti che trova di più sono in assoluto gli scontrini, poi pacchetti di sigarette e sigarette. I mozziconi sono talmente tanti che a volte rinuncia a raccoglierli. Poi imballaggi di qualsiasi tipo ma soprattutto quelli alimentari, bottiglie, lattine, scatole del prosciutto, scatole della pizza, alcune lasciate dalle persone sul posto, magari a fianco a una panchina, alcune sono cose che svolazzano e chissà da dove vengono. Quando possibile raccoglie anche i coriandoli di plastica, quelli che richiedono abnegazione, pazienza, sacrificio, perché la sua la considera anche un’attività zen, quindi non finalizzata a un obiettivo, alla quantità, ma un’attività che ha come scopo l’attività stessa. In particolare raccogliere quei minuscoli pezzi di plastica generati dalla lama del decespugliatore diventa anche un gioco di destrezza, quindi anche divertente.

Di nuovo ho un piede fermo e l’altro che mi può portare ovunque: sono qua, nel Monferrato, a guardare quei coriandoli di plastica indistinguibili dai petali dei fiori, che Enrico raccoglie uno a uno come un maestro zen, e penso che potrebbe ricomporli e passare dalla plastica all’ikebana, l’arte dei fiori. Io non ho quella pazienza: la vorrei, ma non ce l’ho, però un giorno li raccolgo anche io. A sinistra la strada è in salita, a destra è in discesa, ma a me poco importa, sto al centro e sono fermo. Una volta a Cagliari ho conosciuto un signore in un minuscolo giardinetto di fronte a una casa di riposo. Il giardinetto, e la casa di riposo, si trovavano a metà di una lunga strada di una delle tante colline della città. Il vecchio, che indossava una vestaglia a trama scozzese e aveva il viso cadente e gli occhi un po’ disperati, mi spiegò il suo problema: aveva voglia di camminare, ma se andava su, non aveva le forze, perché la salita era dura, e se andava nella direzione opposta, in discesa, poi non sarebbe riuscito a tornare su, sempre per mancanza di energia. Quindi stava a metà, in quel piccolo cortile, come i naufraghi delle vignette della Settimana Enigmistica. Una piccola parentesi: mia nonna ha letto e completato tutti i giochi della Settimana Enigmistica per tutta la vita, senza mai saltare un numero, e poi è morta. Come eredità ci ha lasciato un mucchio di numeri completati e anche alcuni dove non completava i giochi più facili o i cruciverba di livello troppo basso per lei. Usava la penna rossa. Sfogliarli è come entrare nella sua mente. Vedere cosa riusciva a risolvere è sorprendente, ed è divertente vedere le poche cose che non riusciva a fare. Era un fenomeno con i rebus, anche con quelli più impossibili. Quando è morta in ospedale abbiamo trovato i numeri della Settimana che stava facendo fino all’ultimo, con la stessa grafia usata per una bella lettera che ha lasciato a noi parenti.

Ma tornando al vecchio bloccato a metà di una discesa/salita: gli proposi, avendo l’auto parcheggiata là vicino, di andare a prenderlo e riportarlo su, dopo la passeggiata verso il basso, oppure di portarlo su, ma lui disse di no. Provai anche a insistere, ma il vecchio era rassegnato a quella situazione. E poi, anche se l’avessi fatto, domani che si faceva? Lo stesso spostamento di prima, come spinto da un forte vento alle spalle, mi porta in cima a quella collina, qualche anno dopo. Sono con una ragazza di cui sono innamorato, stiamo passeggiando, forse mano nella mano. A ogni nostro passo il tempo cambia. Sole del tramonto. Sole con nuvole. Pioggia. Cielo plumbeo. Mezzogiorno estivo. Vento di maggio. Notte con luna piena. Notte d’estate. Vento di novembre. Pioggia Scrosciante. Pioggerella. Sole di fine settembre. Sono tutte giornate diverse. Abbiamo fatto molte volte quella strada, era una passeggiata che ci piaceva. Ora non ci amiamo più, nelle ultime immagini cammino su quella strada sulla collina della città da solo, anni dopo, fumo. Lei ora abita in Svizzera, si trova bene e siamo amici. A volte mi manda fotografie su com’è il tempo, di solito quando è nuvoloso o quando c’è la neve. Butto a terra la sigaretta  – scusa Enrico – e mi lancio dalla collina, volo verso il basso leggero, come un aliante, plano sul quartiere La Marina, sulle quattro corsie di Via Roma, fino al porto, e là mi imbarco, sulla Tirrenia. Destinazione: il Continente, Cagliari Livorno, faccio le autostrade, ma anche le strade statali, due le mie preferite: la SS9, la via Emilia, e la FI-PI-LI la Firenze Pisa Livorno. Sulla seconda ho preso un sacco di multe, anche dopo che avevo imparato a memoria dove si trovavano gli autovelox. Non riuscivo comunque a rallentare. Sull’A1 ho vissuto in diretta il momento in cui hanno aperto la Variante di Valico e le due strade si sono divise nella direttissima e nella panoramica, nome furbo ma anche vero, strada molto bella soprattutto in autunno e inverno, quasi sempre nebbiosa e nevosa. L’A1 è stata “messa in essere”. La messa in essere non fa parte della liturgia ufficiale, ma quasi. La messa (in essere) avvenne il primo ottobre del 1964 con l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro. I ponti dell’A1 hanno tutti nomi evocativi: Setta, Sambro, Biscione, Poggettone, Pecora Vecchia. E poi il mio preferito: Aglio, quello presso Barberino del Mugello, inaugurato nel 1960. Il nome, Aglio, viene dal torrente che valica. Non fu facile da costruire, si lavorava di giorno e di notte e sulla sua messa in essere venne realizzato un film nel 1960 “Viadotto sull’Aglio”. Sono morti diversi operai durante la costruzione di questo capolavoro ingegneristico. E’ un grande viadotto ad arco in calcestruzzo armato. Alto novanta metri e lungo 439. Sotto ci sono alberi e una stradina, oltre al già citato torrente. Un’opera ardita, difficile da realizzare e ancora oggi di incredibile leggerezza ed eleganza, che però non vede quasi nessuno, dato che ci passiamo sopra con la macchina. Questa è una fotografia scattata durante la realizzazione:

Mi addormento e sono sotto il ponte di Oristano: in realtà si tratta di due ponti paralleli, quello chiamato vecchio, di costruzione fascista, e quello chiamato nuovo, in opposizione al vecchio ma credo realizzato comunque durante un governo di destra, dato che qua come altrove i fascisti non sono mai andati a casa. Sono stato molte volte sotto questo ponte da sveglio, per tutta la mia vita. Sopra l’ho percorso in macchina, in bicicletta, a piedi, di notte e di giorno. Lo chiamano tutti ponte vecchio, o anche Ponti Mannu, ponte grande. Per gli stradari è la strada provinciale 54bis. Sui pilastri un tempo c’erano i fasci littori, oggi sono rimaste sono le indicazioni della realizzazione, anno 1937. Sotto, appena scendo, tra le spighe verdi del grano, trovo delle palme che non ricordavo, inaspettate e molto belle, tanto che scatto una foto di questo strano paesaggio liminale tra il parcheggio del centro commerciale e la campagna. 

Nel 1998 d.C. ero qua sotto con i miei amici e delle bombolette rubate in un negozio di fai da te. Per rubarle usavamo una tecnica semplice ed efficace: uno distraeva il negoziante portandolo dall’altra parte del negozio – bastava dire “mio padre mi ha detto di prendere dei listelli da dodici”, qualcosa così – mentre noialtri riuscivamo a riempire lo zaino e scappare subito fuori, per poi andare sotto al ponte a disegnare. Di alcune bombolette modificavamo i tappini usando del fil di ferro scaldato con l’accendino, con lo scopo di tracciare linee più grandi. Oggi quelle mie scritte sono ancora lì, sotto decine di strati di altre scritte, e in futuro, facendo una stratigrafia, scopriranno cosa avevo disegnato, perché io non me lo ricordo, forse avevo scritto Cloro, di sicuro in stile Phase 2, writer newyorkese che all’epoca veneravo, imitando goffamente il suo stile bubble che scimmiottavano un po’ tutti in tutto il mondo. Nel 2023 d.C. procedo oltre, si sentono fortissime le macchine che passano sopra la mia testa, sia sul ponte vecchio sia su quello nuovo. In estate questo è un posto da senzatetto o tossici, trovo qualche fialetta di metadone, di rivotril e qualche cartone di tavernello, ma con la brutta stagione è scomodo fare i tossici qua. Rovi altissimi, erba ovunque, molto fango e persino la possibilità che il fiume, che è poco più avanti, esondi e ti uccida, quindi non incontro nessun essere umano, solo le tracce, come questa bottiglietta di Metadone.

Sotto i piloni del ponte nuovo decine e decine di pneumatici ammucchiati. C’è un punto preciso dove si sente un fortissimo tu-tum ogni volta che passano le macchine e i camion. Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum. Il traffico ha una certa frequenza regolare a quest’ora e dunque diventa un ritmo riconoscibile. Tu-tum. Verrebbe da ballare. Tu-tum. Per terra cromatismi felici, il giallo delle palme secche e leggermente umide e scarpe e tute da ginnastica celesti, erba verdissima che corre negli interstizi del ponte, licheni gialli che si confondono nel giallo sbiadito di alcuni graffiti. Sotto una delle arcate del ponte spunta un gigantesco fico alla ricerca di sole. Moltissime, lungo il sentiero parallelo al ponte, le piante, principalmente parietaria, trifogli e borragine, qua chiamata spesso “pan’e sodrau”, pane del soldato, perché era una delle tante piante che si potevano mangiare in tempi magri ma anche meno magri, dato che ricordo di averla mangiata tante volte pure io quando ero piccolo negli anni Ottanta.

Poco più avanti qualcuno ha scritto sul muro: non me ne frega un cazzo. E va bene, ti posso capire. Il sentiero arriva al fiume e il rumore delle macchine si confonde con quello dell’acqua, che qua procede più tumultuosa che in altri punti, dove invece è stagnante, unendosi in un unico suono, assieme a quello delle canne al vento proveniente dall’altra sponda del fiume. Resto in piedi ad ascoltarlo qualche secondo, seduto no perché è tutto bagnato, e veramente dopo un po’ macchine, canne e acqua sono indistinguibili: non c’è separazione fra le cose del cosmo, il suono è uno solo che comprende tutti i suoni, unico e molteplice.

Riapro gli occhi, cosa vedo: un muro alto e fittissimo di canne, quelle che ascoltavo, e un muro vero, quello del ponte, fatto di mattoni grigi con un murales colpito per metà dalla luce del sole. Mi avvicino all’acqua il più possibile, noto pezzi di plastica bloccata da sottili fusti di piante palustri, sembrano barche incagliate, viene voglia di smuoverle con un colpetto in modo da liberarle così che possano seguire la corrente del fiume e finire nella Grande Plastica. Qua almeno una volta all’anno il fiume esonda e arriva fino agli argini, mescolando tutti i rifiuti, poi l’acqua si ritrae, e alcuni rifiuti restano bloccati, come buttati a caso su una tela, altri riprendono il corso del fiume e vanno verso la foce, che non è lontana, saranno due o tre chilometri, per finire dunque in mare. 

Nello stesso punto dei pezzetti di plastica incagliati, c’è una lattina di Best Bräu, la birra dell’Eurospin, sembra un galeone spagnolo insabbiato nel fondale della baia di Vigo. In tedesco significa semplicemente “Migliore Birra”. Della Best Bräu mi ha sempre colpito la campagna marketing e la comunicazione basata sulle sue origini misteriose. Il nome stesso allude a birre non italiane, ma non si sa di dove. Sembra una storica birra mitteleuropea, con un logo che ricorda un araldo asburgico, uno strano leone con una corona in testa.  I claim sono sempre un invito all’apologia dell’alcolismo. “Ho passato una serata meravigliosa. Eravamo io e la mia Best Bräu”, “Non puoi comprarti la felicità, ma puoi comprarti una Best Bräu”, “A Best Bräu piace la compagnia e l’aria aperta. Ma ogni tanto, un po’ di tv anche in solitaria ci sta”. E poi il mio preferito, per la sua bizzarria: “Circondatevi di Best Bräu aperte, non di menti chiuse”. Mi incuriosisco alla storia di questa birra, leggo l’etichetta, la cerco su Google. Scopro che viene prodotta qui, a Sankt Pölten, nella Bassa Austria, nella zona periferica, vicino all’autostrada Kremser Schnellstraße. Ci sono campi coltivati, prati verdi, cielo azzurro e una grossa struttura della Egger, una delle più famose birre austriache. Tra le foto dei capannoni e dei macchinari trovo anche una Best Bräu, a conferma definitiva. In pratica la Egger, oltre al proprio marchio, produce birra per tanti altri marchi, tra i quali la “Miglior Birra” dell’Eurospin. 

Vicino alla Best Bräu sommersa trovo una scatola in latta della liquirizia Taitù, la storica “liquirizia calabrese” parzialmente nascosta dall’erba. E’ rosa, la scritta rossa con il font originale di un secolo fa, e al centro una donna nera con velo verde e in testa un copricapo tradizionale. Alle spalle sabbia, si intuisce una zona desertica, e delle palme, ripetute come tema grafico anche in altri punti della scatoletta. Taitù era la regina Taitù Batùl, il cui nome significava Sole e Luce di Etiopia. Imperatrice del paese dal 1889 al 1913 e moglie del negus, cioè il re, Menelik II. Nella cultura di massa italiana divenne molto popolare come donna antipatica, superba, dispotica. Questo avvenne grazie ai resoconti italiani – che però allo stesso tempo la definivano anche come intelligente e di grande energie – dove la regina veniva descritta come una donna permalosa che contraddiceva il marito in pubblico, fatto questo che face nascere vari modi dire, come “Chi ti credi di essere, la regina Taitù?” e similari o «Sembra il marito della regina Taitù» quest’ultimo per definire uomini sottomessi. Il suo nome finì anche in filastrocche o parodie di canzoni dell’epoca. Come sia  finita qua, impossibile saperlo. Sono andato al centro commerciale qua vicino, all’inizio del ponte, e ho cercato ovunque, in tutti i negozi, questo tipo di liquirizia, non trovandolo. Dunque o è arrivata col fiume o è stata gettata dal ponte da una macchina in corsa. Va detto che ha comunque un suo fascino e forse potevo portarla vita, lavarla e magari regalarla a mia madre o qualcun altro. Penso che è un bell’oggetto, eppure non mi viene in mente di portarla via, però scatto la foto.

Da terra parte una struttura metallica che si affaccia sul fiume, non so perché, sembra come un trampolino, ci salgo, mi avvicino il più possibile e guardo l’acqua scorrere, mi trovo tra i due ponti paralleli, tagliati longitudinalmente dal fiume, mi piacerebbe fare un tuffo, ma non lo faccio. Penso: ottimo posto per perdere le chiavi della macchina. Penso anche a come farei a ritrovarle. Scendo dalla struttura metallica, mi accerto di avere ancora le chiavi in tasca, e torno indietro. Sulla strada noto una cosa che non avevo visto prima perché la vegetazione ostruiva la vista in quel senso. E’ un gatto morto. O meglio, quel che ne rimane. E’ bianco, abbastanza grande, mi pare morto da molto, si è già svuotato dalle viscere ed è esposto qua alla pioggia e al sole ipotizzo da mesi. Ormai è quasi una traccia, della sua tridimensionale organicità non è rimasto nulla o quasi. Non sembra abbia subito traumi, forse è morto naturalmente, ma diciamo la verità, non ne ho assolutamente idea. Risalgo dalla parte opposta di prima, a terra ci sono mucchi di spazzatura gialla e blu, colori complementari, o forse erano giallo e viola? Non lo so. Nell’erba che fiancheggia la stradina anche i resti di uno spuntino al Mac, tutti indizi che mi fanno intuire che stiamo tornando in aree più urbane. Non le raccolgo.

Lo sterrato sfuma nell’asfalto, le pozzanghere si fanno grosse, enormi, sembrano così profondi che ci potrebbe affondare un galeone, e ci sono grandi cancelli che a quest’ora proiettano grandi ombre, segno che qua ci passano tir e autocarri. Poco dopo mi trovo nel parcheggio di un’area commerciale. Rumore del traffico aumentato. Automobili parcheggiate. Clacson. Da lontano vedo un cartello con persone sorridenti e, sotto, una scritta: TO SMILE. Attraverso la strada a quattro corsie facendo un gesto cordiale alle macchine che mi fanno passare, e penso che se non lo facessero morirei, dunque sto letteralmente ringraziando queste persone di non uccidermi, poi riemergo dal parcheggio sotterraneo del centro commerciale dove ho lasciato la macchina un’ora o ventisei (1998) anni fa. Noto solo ora un cartello su un palo che non avevo notato prima, quando ero arrivato, nonostante sia proprio davanti alla mia automobile. E’ un cartello plastificato, o forse semplice carta però protetta da un foglio trasparente di plastica. Nel cartello c’è la fotografia di un gatto e sotto la scritta: 13 GENNAIO, SMARRITA GATTINA DI 4 MESI E MEZZO AL CENTRO COMMERCIALE. SE LA AVVISTATE CHIAMATE, segue numero di telefono e un GRAZIE. Non c’è di che, ma dubito che la gatta sia quella che ho visto io, è completamente diversa, non coincide con la foto, né con l’età. Sarebbe bello, narrativamente parlando, una bella chiusura del cerchio, ma non è vero, non è la stessa gatta. Metto in moto, esco dal parcheggio in retromarcia, mi fermo un attimo a riflettere, se andare avanti o andare indietro, con l’occhio cerco l’uscita dal parcheggio e la trovo, un grosso cartello con sopra scritto USCITA, da lì mi ritrovo sulla Strada statale 590 della Valle Cerrina, sta facendo buio, le strisce di neve sono bluastre, c’è un po’ di nebbia, sto attento agli autovelox, almeno una volta, e in pochi minuti arrivo al bivio che mi porta a casa, da dove sono partito, e dove sono tornato. 


 

Martino Pinna
Nato a Oristano nel 1984. Scrive e gira video. Fondatore di Sardegna Abbandonata, autore per CTRL Magazine e Rivista Savej. Coordina i dispacci di Batisfera.

44.456271, 8.900190 Odissea per un corpo

di Letizia Merello


riguarda la tua bestia lanciata nel mondo correre sola sola
(Xavier de Maistre, Viaggio intorno alla mia camera)

Ho ancora gli occhi mezzi chiusi e non mi sono nemmeno lavata la faccia. Mi avvicino alla cassettiera, tiro verso di me la maniglia centrale, cerco a tastoni un paio di calzini e li indosso sui piedi nudi, ancora caldi di letto. Raccolgo dal comodino la scatolina con gli auricolari, li infilo nelle orecchie, aspetto i due suoni che mi confermano l’avvenuto collegamento con il telefono, sul quale imposto un timer di un’ora. Sono tre passi, dal letto fino alla porta della camera, e ne faccio uno e mezzo appoggiata al muro. Il primo tratto di andata, dalla camera alla cucina, sono dieci passi, e lo percorro al buio senza nessuna incertezza: accendo la luce della cucina giusto perché possa farmi un po’ di compagnia, con la sua presenza non troppo diretta.

Il corridoio di casa mia descrive una lunga elle rovesciata: la sua spina dorsale si srotola dalla porta d’ingresso fino all’armadio a muro, in corrispondenza del quale, con una svolta a destra, inizia il lato più corto. Non sono ancora le sei di mattina e, ancora in pigiama, cammino coi calzini direttamente sul pavimento, a passo spedito e leggero; purtroppo quella svolta mi toglie un po’ di slancio e, con l’esperienza, cerco di tagliarla diagonalmente il più possibile, anche se questo rende la strada un po’ più breve di quanto già non lo sia. Dietro le ante dell’armadio a muro sento i rumori dei vicini che tirano su le tapparelle, a volte sbattono una porta, parlano tra loro o al telefono, si preparano a iniziare la loro giornata. Quando la loro porta d’ingresso si chiude per la seconda volta e sento i suoni di lei o lui che inseriscono l’allarme, mi sento legittimata a fare più rumore e a calcare i passi con più energia. Temo di più loro del vicino di sotto, che non si è mai lamentato di nulla: è un vedovo ottantaquattrenne con una vita sociale molto più spumeggiante della mia, e il più delle volte è a dormire dalla sua fidanzata, perché da lei, che vive dall’altra parte della città, pare ci siano le balere migliori.

Quanto agli altri abitanti di casa mia, posso contare sul fatto che il mio compagno abbia un sonno pesantissimo e indossi i tappi alle orecchie tutte le notti, perché sono quasi sempre la prima ad addormentarmi e ho il “vizio” di russare. Sasha, invece, si sveglia con me perché sa che sono io a darle da mangiare – a dire il vero è lei che mi incoraggia a uscire dal letto, il più delle volte, con le fusa o con dei piccoli colpetti in faccia con le zampe. La gatta è un ostacolo costante sul mio percorso, perché la mia camminata segna la fine della pacchia per i pesciolini d’argento. Dopo aver spadroneggiato tutta la notte sulla graniglia di marmo nero, grigio e verde del pavimento del corridoio, perfettamente mimetica per loro, le bestioline iridescenti tornano a nascondersi sotto lo zoccolo d’ardesia appena sentono i miei passi. Sasha mi taglia la strada più volte, nel tentativo di dare la caccia ai ritardatari. Chissà se ci rimane male quando riesce ad acchiapparne uno e del suo corpicino guizzante resta solo una virgola di polvere sotto la sua zampa: direi di no, vista la costanza con cui si dedica a questo hobby e che in qualche modo mi è di ispirazione. In fondo Sasha, come me, insegue un corpo che non esiste.

Quando sono andata per la prima volta dalla mia nutrizionista, il magone ha iniziato a salirmi in gola già mentre aspettavo che mi aprisse la porta, dopo aver suonato il campanello con la targhetta “Dottoressa Valerio”. Il primo ricordo che ha lei, del nostro primo appuntamento, è lo scetticismo scolpito sul mio viso. Noto che ha scelto il verbo “scolpire” e mi stupisce per il contrasto con il mio, di ricordo: mi sono sentita di una consistenza tra il gelatinoso e il liquido quando mi sono seduta su quella poltroncina bassa e scomoda e ho esordito afferrandomi la pancia con le lacrime agli occhi. Da allora sono passati quattro mesi e non sono neanche a un terzo del mio obiettivo di perdita di peso, il che per lei è assolutamente perfetto: mi dice che sono il suo gioiello, le si illuminano gli occhi quando sfoglia il mio diario alimentare e, chiedendomi incredula se mi sento affamata o deprivata, la rassicuro dicendole che no, sto benissimo.

Su un aspetto, però, l’ho vista sempre titubante: quando mi misura la circonferenza col metro da sarta cercando di non toccarmi troppo sento sia il suo imbarazzo che la sua delusione nella goffaggine dei suoi movimenti, poi mi arriva la conferma quando mi dice per l’ennesima volta che non mi muovo abbastanza. Fa parte del mio stile di vita, le spiego, e sinceramente non saprei come muovermi di più senza snaturarlo. Lavoro la maggior parte del tempo da casa, esco di rado, sono fatta così. Forse sarei più motivata se spendessi dei soldi per iscrivermi in palestra, le pavento, e sento già un nodo stringersi alla base della mia spina dorsale per il genuino ribrezzo che mi provoca quest’ultima idea. Se però lei mi invitasse a farlo, probabilmente lo farei, e sicuramente mi farebbe anche bene. Solo, lo farei per le ragioni sbagliate: la goduria di vedere i suoi occhi celesti con le pupille da rettile illuminarsi di gioia e soddisfazione. La contentezza degli altri è sempre stata il mio peccato di gola più grande.

Non conto mai il numero di “vasche” che mi faccio in corridoio tutte le mattine. Preferisco affidarmi al timer del cellulare, e così i pensieri vanno abbastanza da soli, a meno che non decida di ascoltare un audiolibro o un podcast. Mi mancano un paio di puntate de La città dei vivi, ma preferisco gustarmele prima di addormentarmi; il true crime mi rilassa più della meditazione, anche se di certo non mi svuota la testa. Non amo stare da sola col mio silenzio, ma ho scoperto, durante queste mie passeggiate mattutine, che il movimento è un’ottima distrazione, che mi aiuta a levigare i pensieri e, come sassi di fiume, renderli man mano meno ruvidi e pesanti.

Sento ballare la mia carne a ogni appoggio, la sento oscillare tra il sedere e i fianchi e davanti, sotto l’ombelico, dove troneggia quel filone di pane che tante volte sui mezzi pubblici ha fatto alzare in piedi signori anziani in preda al senso di colpa, ancora avvezzi a questo tipo di galanterie, ai quali ho dovuto spiegare con occhi imploranti e un “no, grazie” tra il lusingato e seccato che non ero incinta. Sento questa carne di troppo agitarsi, ricordarmi che c’è anche lei, e la tollero: protetta dalle mura di casa e dalla semioscurità, sono nascosta in un tempo astratto in cui la mia giornata non è ancora iniziata e la mia ciccia, che spinge gli elastici dei vestiti, esiste solo in questo mare semibuio immaginario. Nuoto sotto il pelo di un’acqua nerastra insieme ai pesciolini d’argento, e nessuno mi può vedere mentre tento di avvicinarmi al forziere scintillante che racchiude il corpo che vorrei.

Alle mie obiezioni risibili sul movimento, la nutrizionista ha risposto con la consueta concretezza sbrigativa e mi ha invitata a trovare il mio modo. Un bel problema: niente prescrizioni, niente palestra, niente ordini a cui attenersi e niente endorfine immediate derivanti dal soddisfare le aspettative di qualsiasi essere vivente che non sia io. Un gran bel problema, questo: già mi sono tolta le sigarette, poi il cibo di troppo, ora dovrei togliermi anche la pigrizia. Le spiego, con una risatina ironica che vira verso l’isteria, come l’unica forma di movimento da me contemplata negli ultimi anni sia l’appagamento meccanico del divorare un’intera busta di Gocciole in tre minuti netti. È il mio modo di sfogare la rabbia facendola uscire dai denti, come il veleno che esce dai denti di un serpente. Pensa a come e quando vuoi muoverti tu, mi dice. In pratica mi ha presa per la coda, mi ha bloccato il collo, e poi mi ha detto che sono libera.

Danzo una coreografia leggiadra, infilando più passi possibili anche quando cambio direzione, senza limitarmi a girare su me stessa. Il mio sguardo scivola sulle pareti bianco spento e trova qualche volta la resistenza di un’imperfezione: una goccia in rilievo, un piccolo affossamento nell’intonaco, un punto dove è stato necessario insistere con il pennello. Gli occhi rimbalzano dai ferri della porta d’ingresso all’attaccapanni sempre troppo pieno, dagli interruttori pieni di ditate a quegli strani mezzi cilindri decorati con motivi astratti neri, gialli e arancioni appesi sulle pareti, uno di fronte all’altro, che un’entusiasta me priva di qualsivoglia gusto aveva scelto nove anni prima per rendere meno spoglio l’ingresso alla genovese della sua prima casa. Noto un cerchiolino scuro sopra lo zoccolo, tra l’ardesia e l’inizio della parete. Quello che a prima vista mi sembra un piccolo scarafaggio non si muove quando avvicino il piede, così mi fermo e mi abbasso per capire che cosa sia. Sembra una macchia, ma devo accendere la luce per vederla bene. Gli occhi reagiscono con una certa stizza alla luce fredda dei lampadari del corridoio, poi analizzano quel piccolo rilievo polveroso, con la corolla verde ottanio che sfuma verso l’esterno in un grigio fuliggine. Su una striscia di intonaco che si è gonfiata per l’umidità è sbocciata una minuscola chiazza di muffa. Credevo di averla sterminata a colpi acido ipocloroso: quell’ingorda si era presa quasi tutta la parete di destra della camera e aveva iniziato a mangiarsi piano piano anche i pannelli di compensato degli armadi. Un giorno ho intravisto un’ombra strana che spuntava, sarà una ragnatela, mi sono detta, o polvere, e sono passate settimane prima che andassi a vedere da vicino e mi accorgessi di quella peluria colorata, della stessa consistenza del vello che scintilla sul mio viso quando lo guardo controluce. Questa nuova fioritura mi fa schifo e al contempo sono colpita dalla sua tenacia. Mi chiedo cosa succederebbe se smettessi di fare la specista e lasciassi spazio a questa muffa insolente; forse quella macchia bluastra che mi è uscita sotto l’unghia dell’alluce destro è lei che, zitta zitta, si sta pappando anche me.
Il ribrezzo all’idea di trasportare spore in giro per casa mi vivifica. Mi scrollo di dosso il pensiero, muovendo finalmente anche le spalle, le braccia, le mani, la testa. Sento la circolazione rimettersi in moto, il calore che sale al viso, e la mia passeggiata diventa una marcia militare, scandita dai fiati trionfanti del mio apparato respiratorio. Provo una forzata e paternalistica gratitudine per il mio appartamento, per quanto modesto e squinternato, addirittura percepisco di nuovo l’odore di camelia chimica del profumatore per ambienti attaccato alla presa dietro l’angolo, ormai quasi scarico. Sono grata a questa casa, grata a questo corpo, grata all’opportunità di prendermi cura di me stessa.

Certo, camminare sarebbe la cosa più semplice. La dottoressa mi dà un colpetto gentile sulla spalla come per incoraggiarmi a uscire dalla paralisi in cui lei stessa mi ha gettata dandomi carta bianca sulla mia vita. Ma dovrei uscire apposta, e camminare in mezzo al traffico non è proprio la mia ambizione, ribatto. Sarebbe bello se ci fosse un parco, mi accontenterei anche di un giardinetto pubblico con un po’ di verde, le spiego consapevole di mentire a me stessa, ma quasi certa che a lei manchi questa stessa consapevolezza. Allora il cuoio della sua faccia si rammollisce in una dolcezza che non mi aspettavo, e mi racconta della sua nonna. Sembra una nonna fabbricata per scopi didattici a partire da uno stereotipo che ama cucinare e che porta chemisier con fantasie a fiorellini come la mia, di nonna, da cui ho ereditato polpacci enormi e vene varicose. Uno stereotipo vivente, insomma, a cui in più mangiare piace tanto quanto cucinare, ma lei è sempre stata secca come un ramoscello. Come si spiega questo prodigio? Be’, non solo con tutte le ore passate china nell’orto: la nonna camminava sempre, ogni volta che ne aveva l’occasione. E se ci pensi è un po’ il segreto di tutte le persone della generazione dei nostri nonni, continua la Valerio: se dovevano andare da A a B, molto spesso lo facevano camminando. Non importa dove lo fai: se non ti va di uscire puoi farlo anche in casa. Continua spiegandomi che anche sua nonna l’ha fatto quando è caduta e si è rotta la spalla: voleva mantenersi in movimento senza rischiare di uscire e farsi male di nuovo.

Quindi mi sta dicendo che sono una decrepita nonna, prigioniera del corpaccione di una quarantenne. Praticamente ho già un piede nella fossa e l’altro su una buccia di banana, perché mi è sembrata così naturale, l’idea di camminare dentro casa, e ho sposato subito con entusiasmo questa soluzione, ritenendola perfetta anche per me. Non riesco però a decidermi su cosa determini questa mia vecchiaia che mi fa prendere decisioni da nonna, se il decadimento del mio fisico o la paura irragionevole del mondo fuori, come in una forma di demenza senile.

Qui in corridoio, vicino allo specchio, c’è una foto di me da piccina in montagna. Avrò avuto sei anni: l’aria fiera, un fazzolettone rosso e bianco legato in testa, eccomi immortalata in posa da condottiera, col piede destro su un grande sasso e il pugno sinistro stretto intorno a un bastone con cui ero pronta ad affrontare tutti i lupi che avrei incontrato nel bosco. Ogni volta che colgo la mia immagine di passaggio nello specchio, sembra quasi che la stia seguendo. È lei che conduce l’escursione, con i suoi occhi fiduciosi che guardano verso la destinazione; io caracollo dietro di lei, gli occhi spenti e cerchiati ma un grande ritmo nelle gambe, solo perché ho fretta di uscire da quello specchio, e da quell’associazione. Non sono mai stata una grande camminatrice, neanche quand’ero piccola, e nella maggior parte delle foto ricordo di quelle vacanze in Valle d’Aosta con mamma e papà l’aria di montagna mi conferiva un’aria triste, molto simile alla mia di adesso; in quell’unica foto, invece, c’erano pensieri di lupi da sconfiggere, che mi aspettavano sulla soglia delle loro tane, pronti a balzare; o forse speranze di fragoline di bosco, che avrei raccolto sfilandomi il fazzolettone dalla testa, all’ombra degli abeti e dei larici; magari anche sogni di marmotte da guardare mentre giocavano su un prato. Adesso non sono in contatto con l’obiettivo: come uno zombie, seguo una promessa di felicità indistinta mettendo un passo dietro l’altro, senza troppa convinzione. A differenza dei nonni e delle nonne, non ho un vero punto B che motivi questo spostamento: mi sento un po’ come un robot lavapavimenti programmato per eseguire una pulizia particolarmente approfondita di questa parte del mio appartamento, con un paio di calzini al posto di due efficienti spazzole.

Ho sentito da diverse fonti, più o meno autorevoli, che per perdere peso ci si dovrebbe allenare fino a sudare, o almeno ad avere il fiatone. Io mi sento soltanto un po’ più calda di quando ho iniziato, e dopo una settimana di questa pratica trovo le passeggiate al chiuso abbastanza innocue dal punto di vista del calo ponderale. Provo a mettere maggiore intenzionalità nei miei movimenti, in un tentativo di camminata mindful: premo bene i passi su tutta la pianta del piede, sento il peso spostarsi in un’onda marcata dal tallone alla punta, sento l’energia salire lungo i polpacci, salire alle cosce… e quel tremolìo di carne sballottata. Lo stesso di prima. Il trillo di un campanello tattile impossibile da ignorare. Mi fermo, proprio dove l’armadio al muro e la parete della camera da letto si incontrano formando un angolo. Ho pensato spesso che quello fosse il cuore della casa, e ci ripenso mentre mi rannicchio lì come una sorta di embolo umano, decisa a porre fine a una circolazione ormai stagnante e priva di significato.

La bimba che ero in quella foto non mi può vedere ora: sono sotto la linea del suo orizzonte, raggomitolata in un angolo della nostra casa. Ma io ho impressa nella testa quella sua pancettina che spunta dalla gonnellina di jeans, le braccia paffute, le stesse fossette sulle nocche che ho anche adesso. Tutte cose accettabili, anzi auspicabili, per una bambina di quell’età. Se non fosse che col passare degli anni quella pancetta ha iniziato a fiorire e a sporgere. Credo sia iniziato tutto con l’adolescenza, la stagione delle fioriture per antonomasia: è da lì, infatti, che ho iniziato a trattenerla quando me ne ricordavo (in fondo sono pur sempre una persona pigra), a nasconderla appoggiandoci la borsa davanti quando stavo seduta. Quando ero a casa e nessuno mi vedeva, invece, mi piazzavo davanti allo specchio, di profilo, e la valutavo: cercavo di raccoglierla in un pugno con una mano ma non bastava mai, allora con entrambe afferravo quel ben di Dio che mi ricordava quelle mozzarelle cilindriche del discount che si usano per la pizza. Quante volte l’ho accarezzata sognando di farla sparire senza muovere un dito. Come in quelle pubblicità del gelato, quando fanno vedere la vaschetta che si apre e il cucchiaino che la accarezza la superficie, arandola delicatamente con la punta. Proprio così, con un cucchiaio freddo che mi percorre da sotto l’ombelico fino alla gola e mi pialla, raccoglie in un ricciolo vezzoso tutta quell’abbondanza, poi la fa sparire nella bocca di qualcuno.

Lo spigolo vivo che ho di fronte corrisponde perfettamente all’incavo su cui ora poggia la mia schiena, mentre siedo per terra. Mi guarda impietosamente, per ricordarmi che lo spazio non è infinito e non posso continuare a espandermi. Se occuperò troppo spazio nessuno vorrà starmi vicino. Se ne occuperò troppo poco, si chiederanno che fine ha fatto la grassona gentile che faceva sempre ridere tutti. Se diventerò meno sostanziosa da abbracciare, mia madre mi dirà quanto sono stata brava a dimagrire, poi staccandosi da me aggiungerà che le mancano quelle braccia pienotte, che le ricordavano la forma di sua madre. Chissà poi cosa avrebbero preferito tutte le persone che mi sono state addosso e dentro, tra morbidezza o attrito. Lo spigolo che mi guarda negli occhi sembra avanzare di qualche centimetro, mentre Sasha si strofina contro il mio ginocchio. Non so più se lo sto facendo per me o per qualcun altro, e la seconda ipotesi non mi dà più quel formicolio caldo e piacevole alla bocca dello stomaco.

Ascolto il battito del mio cuore. Non c’è bisogno che metta una mano sul petto per poterlo sentire. Allora sono viva, mi dico, e mi scappa quasi da ridere. Sento le pieghe della pancia contro le cosce ed è una specie di carezza calibrata male, interrotta dal timer del cellulare che mi squilla nelle orecchie e mi fa riaprire gli occhi bruscamente. Mi sembra tutto così vuoto: camminare un’ora tutte le mattine per non arrivare da nessuna parte, sforzarmi per acchiappare per la vita ossuta un corpo che non potrei indossare neanche due minuti senza farlo lievitare, annegare spingendo i polmoni contro l’acqua alla ricerca di un tesoro che si rivela una semplice leggenda.

Non sono disposta a portare avanti con costanza una pantomima di allenamento, seppur con risultati a lungo termine garantiti da una medica. Non sono neanche disposta a uscire alle cinque di mattina e mettermi a correre intorno ai palazzi, noncurante dello smog, con la musica motivante sparata nelle orecchie e il fuoco nei polmoni e sulle cosce. Sono disposta, invece, a piazzarmi davanti allo specchio vicino alla porta d’ingresso, e a voler bene alla bambina che ero e alla donna che sono, allo stesso modo? Ci provo, ma è come poggiare gli occhi su una piastra sfrigolante. Mi volto e sei passi dopo sono davanti alla porta finestra, a guardare l’ombra di un gabbiano che vola sulla facciata del palazzo di fronte, con uno spiffero gelido a farmi sbollire la guancia e il motivo a fiori delle tende stampato dal sole sulla coscia.

Magari non sono capace a correre, ma le mie parole sì. Dovrei lasciare questo cammino a loro. Nel corridoio bianco e rettangolare in cui vivono, completamente disadorno, c’è solo una fessurina che pulsa, piena di vuoto, e poi ci sono loro che continuano a camminare, a mettersi in fila, a comporsi per spingere quel vuoto un po’ più in là, come formiche che agitano le zampette per non annegare in un bicchiere di latte.


Letizia Merello
Ha debuttato nell’iper-testo uscendo da un taglio cesareo nel 1980. Qualche anno dopo ha iniziato a scrivere e non ha più smesso.

39.8037296,8.5502787 Arborea o dello sguardo alimentare

di Franco Sardo


Da questa esperienza, mi sono portato via un egragopilo, ovvero una palla di mare. La sua forma deliziosamente sferica, la sua dimensione rilevante e la sua consistenza pesante, l’hanno resa un perfetto oggetto del ricordo. Così l’ho mangiata. Si trova ancora in uno degli scomparti della mia auto.

Iniezione

La strada che percorro in auto è una provinciale, con una vegetazione spumeggiante ai lati, verde e coi riflessi azzurri dell’asfalto dissestato. Molto dissestato. Entro nel territorio comunale dall’ingresso in corrispondenza di questa strada provinciale e la prima cosa che percepisco è un sample di fatica, nel percorrere quella strada decisamente rovinata e pericolosa, scomoda. Penso a chi quella strada la vive nel suo loop quotidiano, ne incrocio anche qualche esemplare: dallo stile di guida assunto da ognuno in base alla propria personalità, mi rendo conto di quanto questa striscia di degrado s’imponga come protagonista su di loro. Come un cartello infernale spalmato in profondità, avvisa con la calligrafia delle sue vertiginose crepe della ruvidità che permea quei luoghi, da lasciarsi alle spalle per chi parte e da incontrare per chi arriva. Io, dopo tanto tempo che non c’ero stato, arrivavo ad Arborea.

Per arrivare a camminare ho dovuto guidare. Non è sempre stato così. Non è per forza così. Ma così è stato. La meta del mio vagabondaggio non era raggiungibile a piedi. La condizione particolare forse è dovuta proprio al fatto che io avevo una meta per il mio vagabondaggio, ovvero avevo scelto un luogo dove andare per poi in quel luogo muovermi senza una meta. Può suonare contraddittorio, e questo è liberatorio. Come rendersi conto che in un posto, qualunque posto, ti ci porta una strada e una strada soltanto, non perché solo una lo possa raggiungere, ma una sola è quella che percorriamo. Nessun luogo ha una seconda occasione per fare una buona prima impressione. Nel mio caso la strada esisteva già e in quel luogo c’ero già stato.

Caffè prima di tutto. Potrei serenamente farne a meno. Anzi, a volte il caffè mi agita pure. Il fatto che stessi andando in un luogo col preciso scopo di vagare poi senza meta mi poneva esattamente nella condizione di potermi agitare dopo aver bevuto un caffè. Ma le giornate di molte persone qui cominciano con un caffè e almeno per finta volevo per un momento sentirmi uno di molte persone. Non lo ero per niente: il caffé lo presi che erano già passate le undici del mattino, quando buona parte dei lavori che le persone di quelle parti svolgono sono già giunti al termine. Nel bar le voci avevano già il calore condensato di sforzi compiuti, le facce erano segnate da un sudore rappreso. Arborea è il più grande centro agricolo e di allevamento della Sardegna. L’aria, appena entrati nel suo territorio, odora di letame. Qui si dice sia “fragh’e dinai”, odore di soldi.

Al bancone risulto un avventore un po’ impacciato. Mi guardo attorno per cercare di registrare il più possibile nella mia memoria sollecitata dall’ansia. Potrei descrivere il bar, da cima a fondo, quel giorno. Sintetizzo: ricordo che la luce era stata dipinta del giallo delle pareti rustiche, dove appese si stagliavano stampe d’epoca in mezzo a cartelloni pubblicitari e di eventi passati, sagre. Solito armamentario di ogni esercizio commerciale di servizio e mescita di bevande italiano. Peculiarità prevedibile, l’angolo delle slot machine. Vorrei fare delle foto per immortalare quella normalità, ma sono già un estraneo che in un orario improbabile prende un caffè e un’acqua gassata, ho pure il cappello, si vede che non sto lavorando e mi guardo intorno. Fare delle foto mi sarebbe sembrato troppo. Mentre mi auguro accada qualcosa che consenta un breve e discreto scambio indagatore, bevo, tentenno e pago, arreso e disteso. Mi allontano meno guardato di quanto io stesso pensi, giusto da un uomo in tuta da lavoro, unico con la forza residua per trovare l’interesse verso una stranezza, e rimando a mai la documentazione delle foto appese ai muri, bianche e nere come ossa dissepolte, in cui quel luogo era ancora chiamato col suo antico nome: Mussolinia di Sardegna.

Rilascio

Riprendo la macchina e continuo la strada, nel tentativo di raggiungere il centro della città. D’altronde sto seguendo, almeno così penso, le indicazioni giuste. Sorpresa: arrivo al mare. Di già, penso. La strada mi finisce davanti come se me la fossi bevuta da un bicchiere bucato. Parcheggio e decido così di cominciare la mia escursione dal suo limite geografico: una spiaggia, completamente ricoperta di palle di mare, egragopili.

Da Arborea sono andato e venuto diverse volte per gironzolare ramingo, almeno tre volte a distanza di almeno una settimana l’una dall’altra. Ero nel mese di Dicembre e la cosa dopo la prima volta mi era diventata un’abitudine. Che letteralmente desideravo più mi avvicinavo all’appuntamento, molto spesso il giovedì. Si può dire quindi che il mio è il resoconto di un’esplorazione avvenuta nei giovedì. D’altronde nei momenti ci si arriva dalle occasioni.

Da bambino sono cresciuto in tanti luoghi: in casa, nella scuola, per strada, in casa d’altri, nel parco, in chiesa, in ospedale. In ognuno di questi luoghi, da che io mi ricordi, da bambino io quasi sempre giocavo. E sono cresciuto anche in spiaggia, dove giocavo. Ad Arborea, camminando su quel morbido e bitorzoluto zerbino davanti all’uscio del mare, appena ho potuto, mi sono messo a giocare. C’era un copertone lasciato lì nei pressi a farsi centrare dal Sole, e così, dopo aver finto con me stesso di voler avere un approccio giornalistico a quel momento, mi sono messo a cercare di fare canestro in quel copertone con le palle di mare. Mi è sempre piaciuto come gesto, come performance, l’idea di una mira e di una precisione parabolica, morbida, alternativa alla banalità rettilinea della freccia o dello sparo. L’idea di sorpresa che sottende ad un qualcosa che giunge ma non da davanti né da dietro, bensì dall’alto. Da bambino vicino alla chiesa c’era un campo di calcetto in asfalto sgretolato, fra i miei amici ero quello bravo a fare i pallonetti. Ancora oggi in casa tiro i fazzoletti e i noccioli d’oliva nei cestini da lontano. Una volta allenato, diventa una forma di superpotere che ti consente di risparmiare l’energia di doverti alzare. Quel giorno con le palle di mare feci non meno di una quindicina di tiri da una distanza di qualche metro: li sbagliai tutti.

Oltre alle palle di mare, mi scuso per la ripetizione del termine ma a parte egragopili in italiano non disponiamo di altri sinonimi per alleggerire la ridondanza, non funziona come per gli eschimesi che hanno cinquanta modi di dire neve, che tra l’altro non è vero, o se anche funzionasse io non ne conosco altri. Sicuramente in sardo c’è un termine per le palle di mare, magari ce ne sono cinquanta, ma io non ne so manco uno. Io non parlo per niente sardo. Magari un abitante di Arborea potrebbe usare diversi modi per riferirsi alle palle di mare, magari in sardo o più probabilmente in un altro dialetto. La maggior parte delle famiglie di Arborea hanno origini venete: erano coloni, nel senso più letterale del termine: persone che coltivano la terra in cui vivono. In quel caso in cui sono andati a vivere, perché ce li hanno mandati, gentilmente invitati. Questo è successo ad inizio del secolo scorso, durante il regime fascista, quando sono terminate le operazioni di bonifica di quella che era una gigantesca palude e che hanno reso possibile abitare e coltivare una terra bruna di fecondità. Il colore dei soldi. Il regime si prese il merito che qualcuno eterna di una bonifica progettata e cominciata ben prima. Nei momenti ci si arriva dalle occasioni.

Oltre alle palle di mare, quindi, dicevo, sulla spiaggia era pieno di rifiuti. Vedevo prevalentemente plastiche, sia perché galleggiano e quindi facilmente vengono trasportate dalle correnti, fino a venire riversate sulla sabbia, sia perché sono le forme di inquinamento che potevo vedere. Non ho assaggiato l’acqua di mare, non l’ho nemmeno toccata. Dopo averne raccolto diversi pezzi di varie fogge e dimensioni, me li sono portati via per buttarli, una pratica che trovo di decenza minima in occasioni come quella, con un’auto a disposizione. Mentre mi avvicinavo al parcheggio nel bel mezzo dell’assoluto nulla di quell’ora meridiana sul lungomare deserto di Arborea, passa una macchina della polizia, lenta, come in ronda. Proseguo senza fermarmi, ma mi aspetto che da un momento all’altro mi fermino per togliersi la noia e per giustificare il proprio triste lavoro. Già mi pregusto l’aneddoto che ne potrà sortire. Con me ho infatti anche una palla di mare, un egagropilo, e potevo scommettere che mi avrebbero intimato di non portarlo via. Camminando con le mani ingombre di polimeri salati levigati dall’acqua mi stavo già preparando una risposta convincente. Un po’ deluso raggiungo l’auto senza venire degnato di alcuna particolare attenzione. Quella palla come detto, è ancora nella mia auto, mentre la plastica l’ho tutta buttata nel differenziato.

Metabolismo

Cammino e mi muovo, mi sposto, trovo sentieri che seguo e vado a caso, ma in ogni luogo mi accorgo di questo: il mio è uno sguardo alimentare. Non solo quella prima volta, ma in particolare quella prima volta, nello spazio che ho tentato di lasciare vuoto dalle esigenze, un interesse emergeva di continuo. Non quello di mangiare propriamente, sia chiaro, almeno non nello specifico, ma anche. Ad ogni modo ad ogni passo sentivo la tensione dell’illimitato e perciò subito il mio occhio, e appresso quello la mia mente, si trovava a focalizzarsi su qualcosa. Sì, era quasi ora di pranzo, forse anche quello mi portava all’idea di trovare del cibo, da raccogliere, da portare via. Ma perché del cibo? Perché nell’idea di savagismo naif in cui mi ero calato per farmi bianco al romitaggio, ecco che l’utilità primaria, il bisogno elementare, almeno tra quelli in quel momento irrisolti, visto che non avevo sonno né freddo, era il cibo, qualcosa da ottenere e poi da condividere. L’idea di tornare col cibo da condividere, nella sua performatività, mi apparve così distinta e distintamente mi accorsi di come questo plasmava la mia esperienza quel giorno. Non respinsi questa inclinazione, anzi, la assecondai. L’avevo appena fatto, qualche istante prima, anche con le plastiche.

Vediamo il mondo in base alla sua capacità di contenere e di offrire gli elementi di cui ci sentiamo avere bisogno. Niente di strano: un biologo ungherese dei primi del novecento scrisse un libro meraviglioso proprio su questo. Noi non siamo ciò che mangiamo, l’essere è un qualcosa di troppo divenente per poter essere racchiuso in una scatolina di fiammiferi di linguaggio. Ma forse possiamo piegarci dentro comunque qualcosa: noi vediamo ciò che vogliamo mangiare. Noi vediamo ciò che vogliamo. La cosa interessante è che fra le tante libertà di cui disponiamo, il contenuto della nostra volontà è forse una di quelle che ci sfugge di più. De gustibus non disputandum est, neanche da noi stessi, o comunque molto meno di quanto vorremmo credere.

Lo sguardo alimentare che guida l’esplorazione ha però un altro risvolto, questa volta sociale. Siamo sociali anche e forse di più nella solitudine: noi non nasciamo con l’idea di nutrirci da noi stessi. Nasciamo nutriti da altri e per anni e anni della nostra vita noi concepiamo solo quello. L’autonomia è un costrutto mentale ulteriore, è un qualcosa di ideologico, posticcio. Noi raccogliamo sempre per gli altri, che sono la destinazione di ciò che troviamo. Anche il nostro egoismo è un egoismo dedicato agli altri. Ma questo implica anche: cosa significa tornare a mani vuote? Cosa significa non portare niente agli altri. Cosa significa, giungere da un viaggio, e non portare nulla, se non un bisogno, ulteriore, un ammanco da colmare, un vuoto da riempire, proprio da laddove ci si aspetta invece che arrivi qualcosa. Cosa sarebbe stata la mia esplorazione stessa, se non avessi dovuto estrapolarne dei momenti, raccoglierli, sintetizzarli, assimilarli e poi tradurli in questo testo? Quanto siamo davvero pronti all’idea che l’altro arrivi e non ci porti nulla, neanche se stesso, solo carenza?

Soffermandomi ora su questa domanda, a mesi da quei giorni ad Arborea, posso dire che ricordando di aver cercato funghi da mangiare ho trovato sotto una pineta una strada verso ciò che si dice pietà.

Sviluppo

La pineta di Arborea si estende per quella che sembra una dimensione infinita. Solo, ad interromperla, una serie di strisce vuote, come piste per aerei inesistenti, che la attraversano in diverse direzioni, apparentemente senza senso: sono i tagliafuoco. Come canyon che solcano un deserto vegetale, trasformano l’esperienza di una foresta, uno spazio privo di limite percepito, in un bosco, un luogo già più a misura d’uomo. Immensi, sembrano il percorso di schiacciamento che ha lasciato il passaggio di giganteschi megaliti in mezzo agli alberi. Blocchi monumentali d’aria. Muri di vuoto. Un artista di queste parti ne ha da poco venduto una sua versione contenuta, mi pare un metro cubo, di vuoto. L’evento è stato ovviamente notiziato: non si fa che dire quello già c’è.

La città di Arborea non è una città: è un corpo informe disteso con un unico piccolo ombelico ad umanizzarlo. Il centro è costituito da una piazza, ampia, su cui affacciano la chiesa, lo stadio, il municipio, il ristorante, l’edicola e il tabaccaio. Il resto è periferia a perdita d’occhio, sobborghi e case sparse. Aziende agricole, case aziendali, agricoltura edile. Era il periodo poco prima di Natale, una volta capitai in una sorta di centro commerciale, credo fosse l’Immacolata, al piano terra un mercatino di piccoli artigiani locali, attorno a loro negozi chiusi. Non c’era nessuno, ero l’unico a parte i venditori a girare attorno alle bancarelle, pure un po’ stufato e di corsa. Uscendo vidi un venditore ambulante di ipotetica origine africana su una panchina, di fianco a un borsone pieno delle solite cose. Un anziano presumo locale, proprio mentre passavo, gli chiese, consentendomi di sentire: “Ma tu da quant’è che stai in Italia? E ti trovi bene?” Mi stavo allontanando e mi allontanai.

Di quei giorni ho molte foto, qualche video, molti appunti vocali che ho diligentemente preso, parlando con me stesso via cellulare, autocompiacendomi della dovizia di dettagli che raccoglievo e della descrizione con cui tinteggiavo il paesaggio. Abbastanza vergognoso il fatto che al contrario di molti io non provi repulsione per la mia voce, ma anzi mi piaccia riascoltarmi. Lo faccio praticamente ogni volta invio un messaggio vocale. Mi dico sia per verificare di aver detto tutto quanto avevo intenzione di dire, ma di base è che tendenzialmente mi soddisfa il modo in cui lo dico. Così vado avanti, crogiolandomi assieme al mio stesso spettro del passato. Quando me ne rendo conto mi spavento. Per scrivere questo reportage non ho né rivisto né riascoltato nulla di ciò che mi ero preso. La palla di mare che ho ancora nella macchina ha ceduto parte della sua deliziosa sfericità in favore delle ammaccature dovute al fin troppo giusto scomparto in cui l’ho messa.

Scarto

A un certo punto, nelle ultime occasioni, era diventato un piacere andarsene da Arborea. In quel luogo, che avevo attraversato un po’ in lungo e un po’ in largo, anche con attenzione, ma sempre a termine, evidentemente non avevo raggiunto quella profondità da corpo in caduta che costringe a respirarci dentro come disponesse dell’unica aria dell’universo con la giusta concentrazione d’ossigeno. Nelle ultime visite, in particolare, perlustrando letteralmente con fare quasi poliziottesco le zone residenziali, pur se a minima intensità, percepivo un’estraneità molto presente. Nessuno o quasi per strada, ancora meno a passeggio sui marciapiedi, ma neanche nei cortili o nei giardini, di cui quasi ogni casa disponeva. Ad Arborea che mi risulti praticamente non esistono palazzi. La sensazione di essere fuori posto, lì dove la gente viveva, mi era ancora più fastidiosa pensando a quanto invece avessi vissuto con amniotica complicità l’esplorazione dell’ambiente diciamo più incolto, per capirci. Mentre sentivo tutto questo, mi ricordavo che nonostante tutto questo, quel luogo era ciò che altri chiamavano casa e, ovviamente, così peggioravano le cose. Mi muovevo da solo in casa d’altri. Mi irretiva un pudore introiettato.

L’ultima volta, le giornate erano alla loro durata minima, rimasi fino al tramonto girando per quei viali larghi e placidi, decisamente sovradimensionati rispetto al traffico inesistente, ma forse adatti agli imponenti mezzi agricoli che di tanto in tanto li attraversano. Col Sole appena disciolto nell’orizzonte, dentro un parco c’erano delle persone che addestravano un cane in mezzo a rampe e strutture apposite. Poco più avanti tre ragazzine alla sbarra stavano facendo un video di ginnastica da postare sui social. Passando sentivo che due di loro in tuta stabilivano la coreografia, mentre la terza appallottolata in vestiti ingombranti aveva il compito di riprenderle. Due pischelli in monopattino mi incrociarono un paio di volte, alla fine si fermarono in quel parco e si misero a giocare, con qualcosa o in un modo che io non ho potuto né in alcun modo ho voluto decifrare.

 


Franco Sardo
Principalmente creatore di contenuti testuali, in particolare descrittore, talvolta organizzatore di eventi e da poco ideatore di giochi.

45.490922, 9.142202 STELLA X GRANDE CASCO NERO

di Sofia Natella



Arrivo lì.     Respiro.     E torno indietro 

 

*

 

Respiro

Forte 

Spingo 

le gambe il fiato continuo

Salire 

oltre il selvatico

l’ultimo tratto 

Scosceso 

 

e poi

Fondo 

 

Inalare quel sole

Che mi bacia

Dallo sterrato

Apice che domina la città 

E oltre

 

Da un punto tuttavia periferico, sul limite

Tra l’area metropolitana e il fuori 

nord ovest

Non ci sono ingombri, 

eccetto un unico albero, che fa ombra a 

una panchina pietra

proprio in fondo all’altipiano al termine

della collina per cui

Spesso tira vento, o fa molto caldo

Ma si vede tutto l’orizzonte resto 

 

qualche minuto lì a respirare

l’ampiezza del cielo

circolare

il variare delle nubi l’azzurro

Screziare bianco il verde 

grigio bordo 

degli alberi 

e della strada che scorre là sotto 

I monti

 

In pratica se è sereno si vede tutto l’arco alpino e di notte 

però non molte stelle, soprattutto da un lato

C’è troppo inquinamento,

di tutti i generi

e si vedono solo le più vicine

O luminose

Rigel, Canopo, ovvio 

Sirio

 

E la città dall’alto, col suo stuolo di tetti e tutti quei nuovi grattacieli 

curvilinei, o più

monolitici che svettano le loro superfici di specchi

E rimandano un diverso

Cielo Il riflesso 

ritaglio 

di quello che si trova

tramonto

Respiro

Alle mie spalle

 

E torno indietro

 

*

 

Lì: Monte Stella, o montagnetta di San Siro. È un parco cittadino

Elevato

circa 50 metri, uno dei più selvatici

 

Una collina artificiale

Fatta con le macerie della seconda guerra mondiale

 

Hanno messo alberi tutto intorno per evitare che franassero

i declini

su più livelli

 

Ci sono dei percorsi a spiraliformi che alternano

Pendenze o tratti pianeggianti, più o meno sgombri o fitti

In cui spesso mi perdo infatti 

 

non ho ancora capito bene come sia strutturata, o quali siano tutti i percorsi 

 

possibili per arrivare in cima

 

Ma di solito salendo mi aggiro per queste

zone boschive, che non sembra di essere a Milano

Ci sono alberi molto alti, antichi

Abbondante vegetazione spontanea

Sentieri un po’ sconnessi

 

Nudo suolo, rotolare di sassi sotto i passi

 

E larghi prati che sembrano più campi, grandi rettangoli con i camminamenti cancellati dalle erbe troppo alte 

 

Nell’assolato

Procedo a passi ampi

 

Ma c’è anche una parte asfalto, per lo più ombreggiata

E infatti un sacco di gente va lì ad allenarsi

C’è chi corre sulla zona bassa, vicino al campo di atletica

chi fa trail, o bikecross

 

Ci hanno fatto anche delle gare di sci in passato

Negli anni ’60 credo

quando si andava lì ad ascoltare la radio e il parco era appena stato inaugurato

Ed era una cosa nuova che 

 

Ci sono delle salite o viceversa discese a gradoni

E dei pendii erbosi 

più o meno ripidi

A seconda del punto che scegli di percorrere

 

Selciato o 

terriccio 

e radici

 

Sbrecciare sonici

 

Vari versi di uccelli

Latifoglie

Conifere e arbusti

 

Ma non si incontra mai molta gente. È abbastanza grande infatti sembra spesso di essere

soli soprattutto nei giorni feriali 

si può stare lì in eterno volendo

A girare nel boschivo o 

 

stare

 

su una panchina, a guardare

da una delle terrazze del versante che dà verso Lampugnano

È un punto mediano, per cui sembra di essere come sospesi

 

In una centralità

Materiale In un equilibrio

Di stati

 

Concreti, ariosi in uno 

 

spessore

In qualche modo osmotico, traspirante

E raccolti tra i rami degli alberi che stanno dietro Forse 

Ontani ecco

ologrammatico

E l’aperto rigoglio che si stende davanti                          

Gonfio

Le chiome più in basso 

Irregolari, che limitano l’estensione dei prati

 

L’obliquo dei raggi

Ecco mi stavo dimenticando

 

Una volta

Qui a fianco ci facevano i rave o comunque delle feste C’era 

un chioschetto che vendeva da bere 

Magari si andava lì la sera 

A bere una birra sulla scoscesa

 

O fare un pic nic sulla cima

Stando sull’erba dei pendii ovviamente 

Verso Occidente

 

Al tramonto in estate è molto bello e se è limpido si vede tutto lo spettro dei colori o

il contrastare della luce sulle nuvole, rosse

O nere

promesse

Temporali

O sereno

quello sfumato verde giallo rosa verso la città e verso fuori

Ultra indaco

 

Respiro

 

Ronzare di coleotteri

Che si affollano Sempre

Nella bella stagione

 

Mentre ci baciamo

Il crepuscolo

 

E torno indietro

 

*

 

Parto da casa. 

Scendo quattro piani di scale  

 

Mi piace dove vivo ora. Sono in un quartiere più alla mano e multietnico, al di là del ponte della Ghisolfa, una specie di pista di lancio soprelevata che poi si scioglie di nuovo nella circonvallazione, un anello di traffico e terribili filobus

ma c’è un sacco di verde, davvero

oltre ai parchi, molte strade alberate

 

È una zona non proprio periferica ma quasi, abbastanza vicina alla tangenziale

Prima era campagna, poi industriale Adesso 

è un tessuto di edifici civilissimi e squadrati, qualche casa di ringhiera e d’epoca, capannoni più si va verso fuori, e lì stanno anche iniziando a costruire case nuove

Invece verso il centro ci sono villette un po’ decor, ce ne sono proprio in serie, per isolati e isolati, qualcuna un po’ in rovina, la cosiddetta piccola Svizzera, mentre altre 

sono sparse e

bellissime 

nascoste in vie minuscole

 

E poi ci sono molte case expopolari, filari contigui lunghe sequenze 

di caseggiati anche decorosi degli anni ’30 o più semplici anni ’50, con enormi giardini pieni di alberi molto alti, platani e frassini, come quello del condominio dove abito, che ha anche i giardini singoli al piano terra 

si intravedono oltre le siepi che ricoprono i cancelli 

gelsomini odorosi, passiflora che sboccia i suoi mandala bianco giallo viola 

nel tratto della mia via che è una via

a croce 

privata

 

svolto per arrivare su via Varesina, e da lì 

verso piazzale Accursio

che è un piazzale davvero molto ampio, con l’ATS, un sacco di servizi

c’è anche l’ex tirassegno nazionale. L’ingresso ha una bella facciata liberty ricordo

quando ero bambina e vedevo questo rudere tutto decorato e infestato dalla vegetazione Adesso

è tutto transennato e ci stanno facendo la sede nuovo consolato americano, uno spazio immenso cantiere già circondato da un muro

ho visto i render di quello che ci fanno

una specie di complesso ecobeige, con del verde

Che mi è sembrato in qualche modo 

cattedratico

 

e lì a fianco c’è il Portello, un centro commerciale all’aperto molto gradevole, uno schema di viette con i negozi, sormontati da pergolati di glicine 

e una specie di piazza con un colonnato di metallo bianco esile e altissimo che si slancia verso

una vela credo Sempre 

di metallo che la copre 

 

Risale a una ventina di anni fa, quando hanno riqualificato tutta l’area 

insieme a dei condomini alti con quell’estetica modulare ma 

Asimmetrica

sembrano dei codici a barre sfalsati che danno poi sul parco che hanno fatto là dietro

Tutti vetro e cemento, rettangoli di finestre e balconi, e oltre se ne vedono altri

In lontananza, andando verso il centro

Alcuni hanno degli inutili segmenti di metallo 

che si innalzano sulla facciata, intersezioni di linee che perimetrano dei vuoti e sormontano i balconi

li fanno sembrare degli oggetti virtuali, più che dei posti dove si possa abitare veramente

Ma sarebbe già un’altra zona lì gli appartamenti costano caro

Mentre la mia zona si chiama la Cagnola

che va da lì, anzi da piazza Prealpi, che era piuttosto malfamata

fino a Villapizzone, e ha ancora 

qualcosa del piccolo borgo, con vicoli e piazzette lastricate

Molti rifiuti a volte, un rudere bellissimo di villa

Il campo rom, la fondazione Mondadori, la comunità dei gesuiti in una grande cascina, una bella chiesa, un liutaio, la bottega di una stilista e di un pittore

la libreria Baravaj del mio amico Fede che vende usato

E un altro parco ancora intitolato a Giovanni Testori, con una lunga passeggiata piena di murales che va dalla fermata del passante ferroviario

a costeggiare i binari e fino al liceo che ho frequentato

Liceo scientifico P. Bottoni

 

Quasi tutti i miei amici di quel periodo si sono trasferiti qui vicino, come me, da chinatown e dintorni. C’è una dimensione che sembra quella più limitata e maneggevole tipo

degli anni ’90 o primi 2000. 

L’Esselunga di via Mac Mahon è così 

Anacronistica che potrebbe vendere UBIK. 

E poi c’è il mercato in strada due volte a settimana, dove urlano 

prezzi bassi esotici 

ortaggi a 1 euro vestiti usati 

oltre al mercato comunale coperto su cui però c’è già 

un progetto di riqualifica   Speriamo    

               

che non gentrifichi. 

Ci sono anche una bocciofila e un paio di circoli davvero ARCI, è pieno di servizi e piccolo commercio, qualche bar e posticino per mangiare, un paio di locali che fanno musica dal vivo, tipo il Garage Moulinski 

e verso la circonvallazione qualcuno dove si può fumare il narghilè. Ma è tranquillo, anche se di tanto in tanto la sera scoppiano fuochi d’artificio randomici, su cui ci sono varie ipotesi c’è anche un negozietto che li vende

 

la merceria, ferramenta

binari dove passano i tram d’epoca, 

il rigattiere in fondo a viale Espinasse, negozietti intercontinentali asia africa sudamerica

e gli store dei cinesi, i trovotutto. C’è molta calma, e silenzio anche

Sembra 

che nessuno abbia fretta di affermarsi, che forse ci abbia rinunciato o non dia peso alla cosa, che ci sia qualcosa di più importante e vitale

del premio che la grande corsa della città promette. C’è qualcosa di diverso. Tanti alberi. Colori Qualcosa 

di sottile, spontaneo. Una certa confidenza. Consuetudine. 

 

È una camminata che ho fatto molte volte.

 

 

Casa

Portello

Dietro il cantiere

Ampio spazio

Dove non sono mai stata

Tre palazzi TETRIS 

Poligono di tiro

Spari 

 

Murales PAC MAN 

Bucolico percorso campestre tangenziale 

Prati alberi lampioni bianchi 

 Traffico che mi affianca e mi sorpassa

 

Vecchia cascina

Affittasi uffici

Ponte

 

Stare lì nel perpendicolare

Vibrante 

Sudore 

Sospeso

Sul traffico orizzonte

mirare

Di grattacieli

Riflessi lontano

centro

 

Senza riparo

 

nel boschivo 

 

risalire il declino passare

Attraverso

I raggi le foglie i vari

Livelli

innesti

 

Ciliegi in fiore metà rosa metà bianchi

 

A tratti mi fermo ma

 

Arrivo

 

Un due tre Stella

 

Respiro

 

/ˈsirjo/; α CMa / α Canis Majoris / Alfa Canis Majoris, conosciuta anche come Stella del Cane o Stella Canicola; è una stella bianca della costellazione del Cane Maggiore; è la stella più brillante del cielo notturno, […]

durante il Medio Regno, gli Egizi basavano il loro calendario sul sorgere eliaco di Sirio, ossia il giorno in cui la stella diventava visibile all’alba poco prima che la luce del Sole la oscurasse in cielo, […]

dopo circa 70 giorni in cui la stella non era stata visibile […]

70 erano anche i giorni che i defunti trascorrevano nelle “case dell’imbalsamazione”. […]

in una notte limpida, senza Luna e possibilmente senza i pianeti più luminosi, è persino in grado di proiettare a terra una leggerissima ombra degli oggetti. […]

Presso i Celti, la levata eliaca di Sirio era considerata un fatto positivo e segnava l’inizio di Lugnasad […] Presso i Greci si riteneva che il suo scintillio potesse danneggiare i raccolti, portare forte siccità o persino causare e diffondere epidemie di rabbia; il suo nome deriva infatti dal greco antico Σείριος (Séirios), che significa splendente, ma anche 

ardente, bruciante

 

Ronzare di coleotteri

Lento 

corpo nero nel secco dell’erba

 

*

 

Un altro anno senza inverno, non piove e vado spesso a camminare

Ci metto una mezzora, che poi in realtà è il doppio

Considerato che devo tornare

 

Mi piace andare lì, mi fa stare bene

Muovermi soprattutto nei giorni in cui il tempo è instabile o

variegato, in cui mi sento insieme

 

larghi giri di nubi sfumate

Declinazioni di luce che rivelano e contrastano

Il solido

montare di quelle masse di vapori

Respiro

e canto

Mentre cammino

 

ascolto Sia

Iiiiiiiiiiiiiiiiii wanna swing

Brani shuffle

Verso l’equinozio

from the chandeliiiiiiiiiiiiiiiiiiier

 

Avanti, Unstoppable

Mi sento bene

soprattutto dopo aver sorpassato il cantiere

Sconsolato sorgere beige

Un basso muro

Zona militare vietato oltrepassare ma

giro sul retro, dove c’è la colonia felina e poi il vero poligono di tiro, e lì si allarga un grande spazio aperto

che non si può raccogliere tutto, bisogna girarsi a guardarlo

 

A destra c’è la ciclabile che costeggia il muro del tirassegno, mentre a sinistra passano le auto, e c’è lontano

un imponente edificio vetroso, con la facciata specchiata e convessa, quasi in semicerchio, vicino a un’altra struttura più bassa 

Non ho mai saputo cosa sia 

quel complesso

 

È come tenuto a distanza da un ampio prato senza nome in cui si vede piccolo

 

un parco giochi, alberi verdi ma anche rossi

Ai piedi di tre palazzi davvero strani

Sembrano il risultato di un impilarsi sbagliato di TETRIS, livelli tutti neri e bianchi

con una pianta a rombo e l’ultimo lungo 

monolitico blocco 

puntato lì in cima

svetta la verticale del GAME OVER

 

E hanno geometriche gemme fotovoltaiche

Altri rombi neri che stemmano obliqui i tetti di quegli edifici Rombi 

del traffico che scorre Poco oltre

 

La tangenzialina 

una strada a scorrimento veloce che collega le due fiere, quella di Citylife e quella di Rho, ma

Al di là, già si vede 

il Monte Stella

E a destra

C’è un sentiero un po’ nascosto, molto bucolico che ci arriva e passa in pratica

tra le corsie e il quartiere Gallaratese Boldinasco, con i suoi edifici civilissimi

blocchi di uffici

Mediocrità in klinker

prati e alberi

Genius

foglie gialle di ginko

E davanti a una cascina abbandonata con gli orti e altri gatti

Che abbatteranno

Lì c’è il sole a picco e poco dopo un ponte

Cheap thrills

Soprelevato dal traffico, su cui molte volte mi fermo un attimo

per cui poi si attraversa e si arriva lì

Di fronte a uno pseudo albero della Bodhi

Che sta al centro di una panchina di pietra circolare

Con un segmento lineare che sembra proprio 

Un circuito o un simbolo 

di accensione ON/OFF

Sessuale 

 

E poi scelgo che percorso fare

 

mi spingo su, tagliando verso l’alto i primi livelli erbosi 

Non troppo ripidi

 

La luce sulle foglie trama 

chiari sul mio viso

il cielo ritagli

Piccoli specchi

Odore di umido

Sottobosco

opaco

Terriccio di lombrichi, fiorellini, 

muschio, sui sassi

licheni gialli e grigi sui tronchi

Tagliati con le radici esposte 

Riverse a brulicare una morte ancora

 

Arborescente

 

In una radura dove si può dimenticare

 

Il percorso vita con i suoi cartelli e vari supporti per fare gli esercizi

Tenersi in forma, sbarre, anelli

È un altro concetto di

 

bionti, riserve 

 

Varianti 

Di quel fresco fiato d’infanzia che poi mi serve per salire fino in cima forse

Ho calcolato male

Quanto dura 

è la salita baby

Fino in cima

Fa già troppo caldo

Fuori dalle fronde

Ripidissimo sudare

Sul calvo capo 

Della collina

 

E siamo solo a maggio

 

Flames 

Che tramonto!

 

A giugno stiamo là nell’erba arsa 

a bere vino bianco 

 

E ci baciamo

Fire meet gasoline, fire meet gasoline

 

I coleotteri si affollano rasoterra

Neri esoscheletri metallici 

lammellicorni o scarabeidi

Un insetto si posa sulla mia gamba

“Sai se punge?”

Dei ragazzi fanno decollare un drone

Chissà scandaglia

 

La sua scomparsa

Comandano 

L’eccessiva perfezione 

meccanica l’aria

Repeat chorus

Che ora

 

Respiro lì

 

x 2

 

E torno indietro

 

*

 

Tornare indietro è qualcosa che poi non registro, che non riesco a ricordare 

[RECORD]

Non so perché ma non ci faccio molta attenzione, scivolo lì dentro  Senza

direzione, attrito, impegno

 

Automatico 

Passi

Move your body

Ma è diverso

quando vado ho sempre una certa non fretta

ma voglia 

di arrivare, anzi di andare 

E quasi gettarmi nella lunghezza della via cantando 

Bird set free; Alive;

 

Spari

Soprattutto nel weekend, colpi senza ritmo

oltre il muro

Spingo passi,

Elastic heart

angoli

 

Cammino veloce, mi piace sentire la spinta della gambe, fendo facile l’aria con il corpo, premo meglio sull’asfalto, quasi mi slancio

Quando arrivo dove inizia la ciclabile che costeggia il poligono di tiro

e più mi avvicino a quel sentiero 

Ma non corro, non mi piace non sento

Quella propulsione che parte da dietro, quell’aderenza

Muscolare con tutto 

Let’s love

 

Correre invece porta a essere proiettati un po’ troppo in avanti, c’è qualcosa che manca 

Consistenza, come se ci si perdesse in un vacuo, e non mi piace quel ritmo così

Sussultorio 

E poi correndo si ha una visione un poco più ristretta, come se non si avesse spazio o la giusta progressione per assorbire quello che ti circonda

quella continuità che invece camminando Sento

Sempre salda

Quando svolto a destra, dove c’è il muro di mattoni rossi

E lì è alto, ricoperto di edera

E di murales acidi pastello

Che poi continua più basso una volta

che la strada per le auto che si inabissa nello svincolo 

e il sentiero invece prosegue, e dispiega un silenzio interstizio dove si riposano file di panchine alberi erba 

E sembra che lo spazio si dilati mentre ci cammino dentro

creando anse ombrose di fronde e

altro spazio aperto spostando 

 

Verso destra il muro rosso, la grande scritta PAC MAN

Verso sinistra le corsie della tangenziale, i prati chiari

E un’ufologia di vertiginosi lampioni bianchi

Che si erigono iconici nell’erba

Lineari e perenni, quasi santi Raggi 

conficcati nel terreno per rapire respiri

 

Ma scorro in una navata di alberi

che mi proteggono e filtrano

 

Quel sottile reticolo di luce tra gli aghi e le foglie

Che sparge

Un incantevole scintillìo

 

Proseguendo poi gli alberi si fanno più bassi e radi e i tappeti erbosi

Si fanno più ampi, si sollevano un poco sembrano 

mossi, quasi planare

 

Qualcuno passeggia con il cane

 

E ci sono fiori, garofani selvatici ranuncoli trifogli e altri un verde più chiaro brillante che evidenzia

l’opaca lamiera plissettata del guardrail e lo sfrecciare parallelo dei veicoli che veicola 

 

quel vento tecnico

Unstoppable; 

 

E mi viene voglia di andare lì in mezzo

A tutto questo

Breath me

In quell’aperto

 

Spazio 

 

E mi succede all’improvviso la sensazione

di attraversare la me che è già andata, arrivata

O all’inverso nell’altra direzione

O che andrà e arriverà

O sta andando proprio adesso

In tutto il tempo presente

Tranne uno

 

sotto quel dubbio larice che si curva quasi in uno spasmo

plastico abbandono 

godere di quell’essere andare E

 

Sempre accade

 

Quella completezza, quell’essere intera

 

Anche nel punto più brutto

Di fianco alla cascina pericolante

Dove l’erba è logorata dal calpestio e c’è solo un cordolo di cemento a separarmi dalla strada

 

e si vede al di là

il fianco della montagnetta dove giacciono

schiere di alberi bambini, con le radici fasciate in ruvidi sacchi

pronti ad essere messi in terra

 

E diventeranno un più giovane declino

boschivo che risale

Cresceranno e affonderanno le loro radici 

invisibili

Sotto i miei piedi come

Il tremare del ponte che attraverso

Cheap thrills

E tutta questa massa di anni

detriti

Che sedimentano seri

i resti della guerra

Li hanno ammassati lì

E con le rovine che derivavano 

Certo Sirio

l’ardente, il bruciante

Boom

Negli anni ’60

Hanno fatto poi 

la montagnetta 

 

Rami reticoli

Vuoti di cielo che traduce

vari verdi

In cui mi perdo Tra le specie arboree ricordiamo: l’acero di monte, l’acero bianco americano, l’acero saccarino, 

il bagolaro, l’olmo, la quercia rossa americana, il carpino bianco, il faggio, la betulla bianca, il pioppo nero e il pioppo bianco, 

l’ippocastano, 

il tiglio selvatico, il platano comune, il cedro dell’Atlante, il peccio o abete rosso, il pino nero e, infine, la robinia con la sofora

e l’ailanto.

 

Due scoiattoli si rincorrono su un albero 

Schermagliano

fino in alto

Poi saltano come

 

La spada nella roccia 

 

Grandi sguardi liquidi e tremanti

 

Che mi fissano bianco nero dai fusti delle betulle

 

E nella radura 

 

Tronchi monchi

Radicali divelti, 

irrazionali

Alberi in fiore 

Strani ibridi

Ciliegi metà rosa metà bianchi

Innesti

Di sentieri ma verso la fine nelle gambe

Sempre Accumuli 

Età, fatica inevitabile risalire 

Questa via lattica

 

Lo sterrato che diventa

 

Molte volte

 

O melma o polvere  

 

Rigel, Canopo, forse 

favorevole o funesto presagio

 

Primo o ultimo sorgere 

 

Inalare 

 

Ancora ombre

 

Corte e dritte nell’obliquo 

 

Polvere

 

Espirare

 

Lo scarabeo sacro viene anche talvolta indicato con il nome di scarabeo stercorario […]

simbolo del sole e della creazione […]

secondo una mitologia dei primordî, il sole era una grande pallottola rotolata per il cielo dalle zampe anteriori di quell’animale. Si chiamava ééprer, non connesso col verbo éôper “divenire” […]

Evocava, con la vita che rinasce dalla materia non vivente, il mito dell’eterno ritorno. 

 

*

 

Ci sono due modi per arrivare in realtà

 

O il giro che faccio di solito

O passando dal Portello, cioè dietro dove c’è il parco industria Alfa Romeo

tutto sinuoso e curvilineo, all’ingresso c’è tantissimo glicine e altri alberelli 

 

C’è una bella apertura, si vede molto cielo

Anche questo è un parco su più livelli

E si vede lo skyline

Soprattutto quando si va in cima a quest’altra collina artificiale, molto urbana

È una vera e propria spirale

E l’hanno fatta proprio per legarla concettualmente, storicamente

Al Monte Stella, che però è più irregolare, un po’ deforme

 

Vista dall’alto, dalla mappa

Insieme formano due poli

Occhi da ipnosi o come delle bobine di nastri

di una musicassetta

Ruote di una bicicletta

 

c’è un collegamento infatti e lì dietro c’è un altro ponte che consente di oltrepassare quel grande viale che poi diventa la minitangenziale 

E         congiunge

 

QT8, un quartiere rettissimo, residenziale, che hanno costruito quasi da zero più o meno nello stesso periodo

Si passa in questa via alberata di condomini squadrati

e si arriva dal lato dove c’è il campo sportivo, la pista di atletica

E poi da lì si sale

 

Ma faccio l’altro percorso molte volte

Perché è più bello passare

 

dove si apre quello spazio tra i palazzi TETRIS, e sembra che lì il cielo riesca a esercitare una pressione maggiore 

sulle cose

Come se riuscisse a custodire intatto 

Un repositorio di latenza

 

E da lì guardare

all’orizzonte

Lo scheletro cetaceo di un ponte che si impone con la sua cablata carcassa di tensioni e ricalca

la dorsale d’acciaio il crinale della montagnetta 

l’intersecarsi delle corsie il muro di mattoni

quel reticolo i colori maiuscoli dei murales il verde e il bianco iconico dei lampioni

il grigio della strada che sfreccia Poi

Sotto il ponte

 

Appoggio le mani sulla balaustra e sento vibrare 

Per il flusso di auto auto auto aut

Che investono la mia ombra perfettamente

Perpendicolare E

dietro la schiena 

un rivolo di sudore corre Cheap thrills;

Together

Solo una forma

Così aderente

To get ther

chiudo gli occhi e divento nuda notte sono 

a Milano Londra

nella locandina di Crash, adattamento del romanzo di Ballard

film di Cronenberg nella pelle che si raffredda mentre scende

Quel brivido dimensionale ambiguo spell

Di un desiderare  [tɛns], inquieto, tensione elettrica

le luci di un diverso cieli wish, wish

Ma un clacson mi riporta sullo stabile esistere 

della struttura:

 

due modi per arrivare in realtà

O scalando in qualche punto i pendii

O percorrendo le volute

Spirali 

Respiri

 

modi

Che si incrociano

per arrivare in realtà 

 

passi

sull’ultimo tratto scosceso

 

Per 

Coniugare

Esemplare incognita

Croce

 

Dove finisce

 

La fatica

Dio

 

Arrivare 

 

E poi piano

 

Inalare

 

L’orizzonte 

 

sterrato

dove appare 

 

un grande casco nero

 

in cui respirare

 

X

 

Continuo 

Ruotare 

Cadere 

Continuo in un buio che si deforma mentre cadere avanza mentre continuo nuovo

espiro 

quest’aria che esce continua tutta quest’aria che esce continua nuance nociva succhiata dalle labbra dello spazio che mi circonda strettissimo dentro me e ha un peso vortice che mi schiaccia e mi spreme sottovuoto i polmoni, tutta quest’aria che 

espiro senza 

sapere senza finire senza senza a aaaaaaaaaaaaa

Di averne ancora 

Comprimere pregare continuo no

un lampo di quel sogno che stavo facendo, oddio 

Ecco l’ultimo

 

Ma nuova aria una luce sa emergere alla fine 

 

E nuovo continuo cadere ere e in una più densa varietà di buio gamma 

onde di vacuità densissimo 

flutto che mi spinge contro preme e inabissa in uno scavato volume tra le costole ad ogni 

 

espiro lunghissimo 

 

lunghissimo spremersi pneumatico un risucchio ermetico rosa pleura che mi spinge nell’ulteriore 

amalgama 

gravità di imperativi che collassa il proprio nucleo in un altro fuori 

Pressione che compatta

 

Ecco l’ultimo Sempre 

E spiro

 

Ma smentito subito ecco

Prendere tutto il fiato che posso

 

In una volta sola

 

X

 

/in·nè·sto/

1 fare, operare, praticare un innesto. Tra i tipi più comuni, l’i. a occhio o a gemma, in cui un pezzo di corteccia munito di una gemma si inserisce nella regione sottocorticale del soggetto; per altri tipi (i. a marza, a talea, a spacco, per approssimazione), v. sotto le singole voci.  2. In biologia, il termine, usato anche come sinon. di trapianto, indica una speciale tecnica con cui si riesce a congiungere permanentemente due animali o loro parti o a trasferire un frammento più o meno esteso di tessuti o addirittura un organo intero di un animale su di un altro o sullo stesso individuo, nella stessa sede o in sede diversa da quella originaria. 3. In medicina: a. L’atto chirurgico con cui è effettuata la trasposizione di un lembo di tessuto o di un organo 4. a. Nelle costruzioni meccaniche, meccanismo atto a stabilire o interrompere il collegamento tra due alberi coassiali rotanti con uguale o diversa velocità angolare, con manovra agevole e rapida (manovra d’i.); differisce dal giunto per la temporaneità del collegamento, che può essere attuato o interrotto al tempo voluto e per un dato periodo:  b. Con sign. attivo, la manovra mediante la quale le parti dell’innesto si fanno venire a contatto in modo che la trasmissione si com

 

Si dice che quando si immagina di fare qualcosa, a livello cerebrale è come se si facesse davvero Allora 

 

ci si continua a ripetere interiormente istruzioni intuizioni e spezzoni di frasi, versi, ricordi

 

molte volte

 

mi succede anche prima di addormentarmi, o cerco di farlo quando il sogno è un po’ lucido

 

Prendo appunti

 

O forse è una di quelle cose da degenerazione o nebbia cognitiva 

effetti collaterali dell’anestesia, misurata mistura di morfina

 

O più semplicemente da soggetti ossessivi: ripetere e ripetere e ripetere e

Descrivere orbite

Ambiguo termine, termine: anch’esso ambiguo                  liscio crinale

scivolare

Per non dimenticare e immaginare meglio 

aggrapparsi ai dettagli, ripristinare la sequenza dei dettagli per non permettergli di disintegrarsi, frammentarsi in falsi O

 

scindersi 

pensieri e sensazioni e particolari che dobbiamo perpetuare perché mantengano la loro persistenza, perché possano per durare

Per per per

visualizzare

camminare, camminare veloce nell’aperto 

anche correre, anche se sono in un bianco letto

 

E se si fa qualcosa e si visualizza insieme, sembra che si potenzino

 

I muscoli delle mie gambe che si contraggono

E rilassano, si contraggono

gli effetti

conto fino a dieci, isometria, leg extension, già un giorno dopo l’intervento

3 serie

e muovere i piedi, tenerli fuori dal lenzuolo, che aggiustarmi poi

Muovermi

È complicato  

stirare le punte

cercare il più possibile di essere autonoma

Distendere legamenti Immaginare 

l’interno del mio osso ricomporsi Vitalizzare

i vasi sanguigni

il metabolismo

 

Complemento. Enoxaparina 4000, lansoprazolo 15, antidolorifici al bisogno ghiaccio

Chiedo all’infermiere Mi porti un altro margarita frozen per questa gamba per favore?” 

È gonfia e sembra ancora storta ma

non mi fa molto male Ricordare: la corda dello strumento, della lira, e il cuore – uno strano ibrido adesso sono cyborg

ho una placca e sette viti in titanio

 

tutte quelle fibre muscolari striate. Striate o lisce?

Che si contraggono

 

I tessuti che si riparano

Nuclei e processi che si attivano sintetizzano

 

Osteoclasti

 

Mi sono rialzata e ho cercato di camminare dopo che sono caduta ma non riuscivo a caricare

 

Il peso 

Alla fine

 

Poteva andare molto molto peggio di

Esito 

 

frattura piatto tibiale dx, scomposta, pluriframmentaria

 

In pratica è la parte dell’osso sotto il ginocchio che si è

Spaccata e affossata

Infatti mi sembrava un po’ deviata ma pensavo

fosse gonfiore, una distorsione

più che dolore ho sentito girare

E l’ho capito quando mi hanno detto che dovevo fare l’rx torace, che mi avrebbero operata

 

Ho respirato, e ho chiesto 

quanto ci vuole

3 ore, per l’operazione

No, per tornare a una vita normale, intendo

ci vogliono mesi e io ho risposto che avrei fatto prima, che sarei tornata ancora più in forma di prima

 

Non ho ancora visto la ferita

 

Guardo la gamba oltre la garza

Tenere l’arto elevato 

La gamba che è la mia ma non è più la mia, ha una sensibilità strana

rivendica un altro genere di appartenenza, una maggiore condivisione con l’esterno Adesso 

è del letto dell’aria della stanza è del tragitto letto bagno è del corridoio del reparto ortopedia dell’ospedale è di fuori dalla finestra è della città degli edifici delle strade è dello

 

Spazio

 

remoto

 

dove voglio andare?

 

Durante l’intervento ho sognato che ballavo di notte in un bosco.

Come in un rito primordiale

Ipnotico

 

Restare lì fissare 

 

Il galattico evolversi dell’ematoma 

Macchie ora giallo verde, prima nero viola

 

Volere

 

le pale del ventilatore a casa di mia madre che sfumano grigio sul soffitto due mesi

 

X

 

Giorno di latte sporco, al cielo manca una dimensione, un eccesso di equità pareggia il paesaggio in cui comunque mi muovo abbastanza bene, ho recuperato tutta la flessione, toccare il gluteo col tallone, fatto due cicli di fisioterapia all’ATS di piazzale Accursio dopotutto

ho reagito bene, è un grande sconto sul karma!                   

E prima del previsto

È il 12 ottobre E

finalmente sono tornata a casa mia, l’ultima volta che ci ho messo piede era il 14 agosto, e scendevo veloce le scale, inforcavo la bici nel deserto facile

Andare nel bruciante ora            lenta

riesco a salire i quattro piani di scale con una sola stampella  

Per uscire ancora le porto entrambe, per sentirmi più sicura 

ho quasi i calli sui palmi

Qui a dentro  casa mi sento più a mio agio, posso riappropriarmi

Respiro

quasi sorrido

dal mio balcone verandato

Tutto quello che è passato

Medicazioni con il betadine, deambulare con il deambulatore, un passo alla volta, sempre fare attenzione, l’ansia di cadere o che la gamba

Si saldasse storta

non riuscire a dormire, svegliarmi ogni due ore, con quelle fitte al tendine di Achille, e la sciatica, per la posizione

 

Contemplo il grande platano non più tutto verde che presto verrà potato ma che meglio ricrescerà la più vigorosa e tenera novità sui suoi monconi, che non ci sono ancora però 

L’hanno aggiustato

L’osso sta guarendo, è ben allineato

 

Ma questo scremato sole 

Che ottunde

 

Anche lo sfrecciare delle rondini

che irrompono la loro fuga di stagione nel cielo vetroso E sono ormai oltre 

un qualche tipo di superficie che in qualche modo mi separa che in qualche modo percepisco come differente distanza o differita 

durata 

Che faccio fatica ad attraversare

Lancette, zampette, bianconere strisce

RX

E questi cieli

Che non cambiano e restano

totali 

Celesti o piovosi continui

Schermi 

Per molti molti giorni

progressi

Che non scorrono 

 

Per uscire a volte

 

click click click

 

indosso ancora un lungo tutore con le cinghie nere come quello che si vede 

in una scena di Crash.

 

X

 

Sul marciapiede, nella lunga prospettiva rettangolare tra i palazzi delle prime vie vicino a casa già si vede, il Monte Stella. Non l’avevo mai notato

 

Vado verso la fisioterapia, ciclo terzo

Attraverso

Cautela

Senza stampella

Che ancora zoppico un poco

 

“Non devi camminare così!: 1

Ma tipo  1111111111”

 

Come una macchina

Per la normalità 

del consueto tragitto

Tutti i giorni

Rischio di cadere 

se non alzo abbastanza il piede, e non ho i riflessi pronti 

per evitare

 

Provo per brevi tratti, ma vorrei riuscire a fare meglio

 

“Dai che sei bravissima”

 

Faccio fatica dove il suolo è sconnesso

 

“A volte restano delle superfici un po’ irregolari”   ha detto l’ortopedico

“è una frattura tra le più complesse, richiede molto rispetto

E tempo”

Scomposto ricombinato

tessuto  racchiude il midollo

emopoietico cosa sento

Si fa 

ma torna dritta vero

 

sembra quasi una S la mia cicatrice

 

?

 

Il problema maggiore, però, ipotrofico, è il quadricipite, che ha perso tono, molto

E massa

Che non ho forza per spingere

Velocemente, avverbio i passi

 

E non regge

 

Guardo fuori dalla finestra della palestra

Oltre il sottile colonnato tibiale

del portello Il piatto velo teso di metallo che ricopre la piazza 

la gente che passa,  naturale

Sette viti e una placca

 

Dall’altro lato c’è invece

 

Una camminata che ho fatto

Molte volte

 

—-

 

Molte volte

Celesti Instabile Ora

Desiderare

 

Un solo sasso chiaro 

che splende il mio spleen

tra le folte fronde non so 

Sul mio viso cosa trema nei pomeriggi

Quale specie

di mattino

 

sai se punge?

 

innesto

I’ve got thick skin and an elastic heart 

Titanio 

 

Ripetere Allora

 

e ripetere esercizi, dettagli 

usare il peso, 1 chilo, sei serie

Recupero, sto recuperando, immaginare meglio

Camminare veloce

facendo attenzione 

Contrarre bene il vasto    mediale panorama muscolo  oltre

al laterale, mentre l’ultimo fascio

Di luce femorale, retto

rosso tramonto del quadricipite

si allena solo negli ultimi gradi di flessione

 

Estendere Allora

Sollevare albe, una volta     

orientarsi

segni congiunzioni opposizioni o

collegamenti tra gli astri

forse Sirio, l’ardente, il bruciante Passi 

Falsi Immaginare Tonico 

Contrarre Fibre muscolari Pupille 

Il sole tra le fronde

 

Raggi

 

 

Buio trasparente

 

La croce fatta a pennarello Per non sbagliare gamba

L’ematoma nero profondo 

Ho ancora la macchia, si è ossidato il sangue, dietro il ginocchio Gonfio

Sìsì benissimo e ho una cicatrice Bellissima Ripeto sinuosa Resterà solo un filo ricordare forza Sono stata fortunata

poteva andare molto peggio poteva Sarebbe potuto

patire attivo o passivo Mobilizzare l’arto

Verbo, parallele, destino

Sirio in realtà è un sistema Binario

cave lingue metalliche 

Per fischiettare solchi nell’estate         sfiga

Passare il tram, essere investita volare e scorticarmi Interamente con l’asfalto, avverbio Rompermi la faccia i denti 

O molte più ossa

Sorrido

Ero di buon umore Sto bene sto bene Ripetere 

Stretching Adesso

Fai gli esercizi in carico

Di responsabilità

Sono caduta da sola, un eccesso di generosità, volevo far passare 

una macchina che avevo dietro

Senza motivo, e poi non avevo più spazio per evitare

O la rotaia o il marciapiede

E ho iniziato a scivolare

osteosintesi

 

mi hanno cucita a mano

hanno spostato il muscolo tibiale

Anteriore futuro

Non prenderci il sole

Tanto non si usa

 

Ripetere 

 

Lastra 

 

L’astra

 

In grado di proiettare anche durante il giorno

Un’ombra sottile 

 

Rip

 

Tra x mesi.

 

Di notte dopo l’intervento mi sembrava di annegare, andavo come sottovuoto

non riuscivo a respirare

 

“Non devi ballare, mi raccomando”

“da non sottovalutare i rischi”

 

Dell’anestesia

 

O di essere travolta da una bici o da un monopattino o da auto aut 

O

di inciampare in qualche

 

Serie

 

Conseguenze

 

x3

Per per per

 

mezzo; o

Moto attraverso luogo o

Moltiplicezione

 

Croce

Errore, operazione

 

Ansia che ventola 

 

GLITCH

 

Mi fermo in mezzo alla strada vicino all’ospedale dopo il controllo numero 4, a dicembre  

Respiro un fiato piegato

Sguardo basso sull’asfalto

Mi fa male la gamba, come non ha mai fatto, dico all’ortopedico

 

“Ma la frattura è perfettamente guarita”

Osserva la radiografia

“Perfettamente”

Sento come la vite che tira, magari è per il freddo che è venuto giusto

all’approssimarsi del solstizio 

 

“Molto probabilmente sono i mezzi di sintesi

Che danno fastidio, dovrebbe valutare di toglierli”

 

“Anche perché se dovesse farsi male di nuovo eh

Poi È un bel casino”

 

Ripetere l’intervento

“Anche se è molto meno problematico”

Di questa gamba che non sa più naturale

Camminare raccontare ricordare senza

Automatico riflesso ricordare specchio

cosa combacia dallo sterrato neurone 

 

E non sa dimenticare

 

Mi viene da piangere. Non l’ho più fatto da quando mi hanno portata dal pronto soccorso in reparto e per due ore

Scorrere naturale soluzione salina

l’ardente, il bruciante 

desiderio di tutto quello che avrei voluto fare che volevo ballare

Fluido 

articolare

Discorsivo

In quel letto

 

Foglio 

 

Bianco 

 

Non riesco più ad andare avanti.

 

Neanche a scrivere questo reportage, che doveva essere su questa camminata che ho fatto molte volte, in un anno

Fin dal principio

Solare

da febbraio a febbraio

 

Ma mancherà una stagione il terreno è troppo irregolare

 

Che non so coniugare

Andare

Con le insidie del foliage afasia

fango o cadere, scivolare, sin.

come-quando-fuori-piove

 

Semi o

Coincidenze

 

Fall, guardacaso

 

Che saldano la realtà in maniera così perfetta 

dritta vero? 

Da risultare innaturale

innesto

  1. fig. Inserzione di un nuovo elemento attuata in un complesso che è preesistente: la poesia de’ trovadori … operò l’i. di una cultura straniera sul tronco italiano (Carducci); lingua letteraria in cui soltanto a colpi di trasposizioni e d’innesti dall’uso parlato, tecnico e dialettale si può nuovamente far correre il sangue e vivere la vita (Pavese).

 

Scarabeo, incroci di parole, spell

Il ponte di Crashil tutore 

Se immagini una cosa a livello cerebrale è come se accadesse davvero

in titanio

Sia, Titans

La morte di Kronos.

 

 E poi come recupero

Tutto quel tempo il muscolo E

Tutti i dettagli che non ho registrato tornare che ho perso

 

Stella

 

Per amore 

 

Era il nome della moglie

Chiudere gli occhi solo per veder 

cadere

 

I sogni che avevi

Al liceo Piero Bottoni

È stato lui a progettare il parco

 

E quel pic nic che abbiamo fatto

Doveva essere romantico

L’intero spettro dei colori 

Ghosting purissimo 

Che s’impasta

Lamellicorni o scarabeidi

insieme a tutto il 

 

resto 

in questa massa cor 

rotta di tempi detriti 

Una sfera di mesi e mesi

che non so più

 

dal tedesco glitschen (slittare) 

e dalla parola yiddish gletshn (scivolare)

Il peso di molte volte 

in una volta sola.

 

Nè come passare io

Per tornare 

 

Per non

Per ire

 

|

 

“Bisogna sciogliere qui” – dice la fisioterapista mentre mi massaggia la cicatrice

“Mi fa male, anche se ancora sento 

diversa la pelle in certi punti” 

 

“I tessuti sono tutti incollati

succede con questi interventi, si creano delle aderenze”

Strati su strati: ossa muscoli legamenti tessuti connettivi derma epidermide

 

Lei pizzica e fa scorrere le dita sul segno

È una linea un po’ curva lunga 

una buona spanna

Che conserva come un’incandescenza

 

Chissà su maps che percorso ricalca 

 

Faccio ricerche, apro finestre, digito: monte stella, coleotteri, ars oblivionalis, apparato muscoloscheletrico, innesto; apro maps: 

invio

 

susseguirsi di passi

 

l’immagine di streetview si stira

 

Voglio arrivare in cima Allora

 

Click click click

 

Cerco di ricordare

 

Molte volte

 

Un due tre STELLA 

 

Respiro

 

tornare lì con la mente me stessa

incorporare

 

Gli scarabei stercorari tendono a trasportare la loro pallottola lungo una linea retta orientandosi attraverso la luce emessa dalla Via Lattea; se incontrano un ostacolo, cercano di superarlo scavalcandolo, senza cambiare direzione.

 

Scendo le scale della palestra, non mi dirigo verso casa

 

giro verso il Portello, passo dal retro del cantiere

Consolato

Incedere 

dove inizia la ciclabile

 

E si vede quel complesso, che non ho mai saputo cosa sia

 

Un repositorio di latenza

 

Ma mi spingo fin dove riesco

Finché non smetto 

di zoppicare 

zapping

 

|

 

Tornare lì per arrivare indietro

 

*

 

Un altro anno senza inverno, clima inverso alla nascita di Frankenstein

Non piove

Quattro giorni ha fatto febbraio e ci sono 19 gradi, precocissime gemme destinate ad altrettanto precoce fallacia

Non hanno avuto la lunghezza del freddo per accumulare tempra, stamina 

nelle loro fibre senza la necessaria qualità

Di questi autunni che non cadono. E corrompono la primavera, che impastano il non più al già

Gialla l’ascensione dei colori

tra gli spari del sereno poligono di tiro

Regolare

Piccoli pixel ritmano i miei passi

Nell’erba arsa

In cui procedo a passi ampi

Mentre mi avvicino e leggo sulla facciata a specchi la cubitale scritta

WJC 

E mi inoltro per la prima volta ai piedi dei palazzi TETRIS

Mentre un ventilare vischioso trascina

Blocchi

GAME OVER aptico

varco 

verso il parco giochi che si vede piccolo, poi sempre più grande, fino ad avere 

Adatta 

dimensione

 

Sembrava così moderno e decoroso invece è decorso, corroso. Pochi nonni e nipoti che giocano generazioni

Altalene, panchine

Manca quella di mezzo

Ci sono solo due catene

Che pendono 

Dal tendersi della struttura

 

A terra il vento ha radunato l’incuria e la polvere in un piccolo ordine: neghentropia, si dice

in cui si disperde un inquieto

 

Ma c’è silenzio

Qualcosa di intatto

 

Ad un albero spoglio è appeso il verde violento di un sacchetto di escrementi

 

Nonostante sia dotato di ali, lo scarabeo stercorario non è in grado di volare. Le ali anteriori sono totalmente indurite (elitre) e vengono usate come protezione per il corpo 

 

Attraverso la strada e nello spazio davanti all’ingresso del World Join Center, in un’ansa bianca

 ci sono due figure, due statue scure in piombo credo

due uomini che sembrano ustionati, con la pelle di cera. L’opera si chiama Il punto di fuga, guardacaso 

e la sottile soglia delle palpebre si dischiude proprio là 

all’orizzonte dove

 

È tutto vero

 

Lo scheletro del ponte che si impone 

con la sua cablata carcassa di tensioni  tense 

e ricalca

la dorsale d’acciaio il crinale della montagnetta 

L’intersecarsi delle corsie i fasci del mio quadricipite

Femorale muro di mattoni reticolo colori, 264 

Rombi del traffico streaming cadere ere e

 

Eco che dice

Suggerirei che si può dimenticare, e volontariamente, sia grazie all’interferenza tra informazioni sia grazie al loro eccesso. Spesso una nozione o una parola non vengono dimenticati, bensì confusi con altre nozioni o con altre parole, sia per pseudo-sinonimia (per esempio si confondono tra loro le parole /paronomasia/ e /antonomasia/) sia perché inizialmente di fronte a due cose (parole, nozioni, azioni da compiere) non sappiamo quale sia quella giusta, poi riceviamo l’informazione esatta, ma da quel momento ricordiamo insieme errore e correzione senza ricordare quale sia l’uno e quale sia l’altra – ovvero il dilemma ci ha impressionato più che non la sua soluzione, ed è quello e non questa che ci si è impresso nella memoria. […] 

Non si dimentica per cancellazione ma per sovrapposizione, non producendo assenza ma moltiplicando le presenze.

 

Click click click  Claudicanti nubi

 

di dati

 

Sutura 

 

a destra il sentiero ombroso ameno la grande scritta PAC MAN

a sinistra i prati chiari, ufologia di lampioni

la lamiera plissettata del guardrail e lo sfrecciare dei veicoli che veicola 

quel vento tecnico

Unstoppable; 

 

M’inoltro al centro, percorro

 

navata di alberi

 

Coniugare selvatici

Fiori, tappeti erbosi

Quasi planare

 

Qualcuno passeggia con il cane

 

E sembra che lo spazio si dilati mentre ci cammino dentro

 

11111111111

Come una macchina

Per la normalità

 

Binaria

 

Larghi giri di nubi sfumate

Declinazioni di luce che rivelano e contrastano

Il caso 

Solido ablativo

montare di quelle masse di vapori

Mentre procedo 

Shuffle

Verso l’equinozio

 

quel dubbio larice che si curva quasi in uno spasmo

plastico 

L’hanno fatto a pezzi

Un nastro rosso e bianco

perimetra i resti

Esposti i rami tagliati 

 

Un’altra ombra abbattuta, un altro facile bersaglio per il sole che sarà 

cattivo

BOOM

Blocchi di uffici

Mediocrità in klinker

E la cascina pericolante con gli orti e altri gatti

anche quella Ora

È vuota

pronta per essere demolita

 

dall’altro lato, sul fianco della montagnetta 

filari di alberi bambini, fasciati in ruvidi sacchi 

sono stati messi in terra

Esilissimi e spogli

Chissà se reggeranno

La subordinata

Che cresceranno

Il peso 

dei declini 

 

Lo sforzo della gamba

 

Arborescente

 

Avanti

Move your body

Sia

Congiuntivo

 

Salire

 

Sul ponte di Crash, dove il traffico investe la mia ombra

perfettamente E

 

Sempre accade

 

Appoggio le mani sulla balaustra, lo sento vibrare

In una centralità

Materiale In un equilibrio

Di stati

 

Sbrecciare sonici

 

Cheap thrills

sudore

auto auto auto aut che

 

ambiguo spell

Di un desiderare  [tɛns]: tensione elettrica

ON/OFF

Sessuale 

 

Spontaneo spingere

 

[tɛns]: teso

Nel verbo: tendere (tighten); contrarre un muscolo

O noun: tempo (grammar) come si coniuga

in the past present future tense, continuos 

 

Attraversare

 

Move your Bodhi

 

Raggi nel boschivo

 

Salire volute

Spire

 

E con le rovine che derivavano

forse Sirio

l’ardente, il bruciante

risalire 

Strani ibridi

 

Cosa diventi

quando fai un passo alla volta, quando devi imparare

 

Molte volte

il percorso vita con tutti i suoi cartelli, sbarre, anelli

Occhi, betulle

 

Cercare la via più dolce

Articolare 

Caviglia ginocchio anche

questo discorsivo, destino 

In una quasi facile anabasi

Se si decide di riuscire a salire che è questa la volta

Celeste

Che splende il mio spleen

nel profondo 

Participio

Spingere

Detriti di anni 

che sedimentano serie

di sentieri modi

Che si incrociano

in realtà 

 

passi

 

Per 

Coniugare

Esemplare incognita

 

E sotto le suole ghiaia un qualche rotolare di risa

È un altro concetto di bionti, riserve 

Varianti di quel fresco fiato d’infanzia che poi mi serve per salire fino in 

Croce

Rocce

Che sempre accumuli

Nelle gambe

Questa via lattica

 

Ogni elemento più pesante del ferro proviene dall’esplosione di una supernova

E penetra

Tra le folte fronde che non so

 

Scosceso 

Cantare

 

Innesto

Sacro 

Respirare

 

E  fondo 

 

Inalare quel sole

che mi bacia apice

 

Fire meet gasoline, fire meet gasoline

 

dallo sterrato

Schermo

la luce con le dita

 

sul limite

tra i grattacieli lontano guardacaso

C’è un incendio

 

E oltre

 

Non ci sono ingombri, eccetto

 

un glitch gigantesco

 

là in fondo, al principio del declino c’è un grande casco nero

E bianco. Prima è più lontano, un dettaglio innaturale, ZOOM+ mi avvicino

È il capo corazzato di un ragazzo che fa bikecross, intorno a lui altri mal dimensionati umani

ragazze runner; altri caschi più piccoli, sezioni di ruote, visi sorridenti sudati, spettri di colore che permangono insaturi e traspirano impigliati tra i pixel

 

E poi torno indietro 

 

per l’altra strada, quella dove 

non sono passata

Attraverso quell’altro ponte che ha la grata antisuicidio che reticola

Il grande cartello verde acido IDEALISTA

E l’insegna di McDonald’s

 

Mentre semplici coleotteri profani ronzeranno l’estate ancora 

Senza rotolare niente, nessuna materia inerte

Al tramonto, nell’erba arsa

Voleranno e scivoleranno e basta 

sulla mia gamba 

che sa cos’è E

sperire

 


Sofia Natella
È nata nel 1984 a Milano. Negli ultimi anni ha scritto reportage per la TRILOGIA NORMALISSIMA di CTRL magazine&books; compone poesie, alcune intorno a un buco nero, apparse sul n°4 di Quanto – rivista di letteratura speculativa. Conduce esperimenti.