44.902358, 8.602335 Alessandria mon amour

di Kai Ortolani


Ho pensato, senza farmi troppi scrupoli, di parlare d’amore. Alla fine, con questa storia che tutti parlano d’amore, nessuno ne parla mai; e invece l’amore è importante, è il segreto della Sacra Scuola di Hokuto, quello con cui Kenshiro riesce a far esplodere le teste dei nemici. Io non sono particolarmente interessata ad approfondire con precisione la questione del collegamento tra il vero amore e le teste che esplodono, anche se ammetto che l’idea in sé è piuttosto affascinante. Però preferisco lasciarla così, come una pennellata nella mia mente: l’amore e le esplosioni.

Non so davvero se Alessandria possa essere considerata una città in qualche modo interessante o piacevole per qualcuno che non sia accecato dall’affetto o dall’amore. Umberto Eco ad esempio la amava molto, ma era nato lì e quindi a quanto pare aveva i suoi motivi. Penso sia bello e rassicurante amare il luogo in cui si è nati, credo che debba dare un senso di pace avere ricordi pieni d’amore per la città che risulta essere ufficialmente la nostra città. Si dice “io sono di Genova”, “io sono di Venezia”, “io sono di Napoli”, e tutti di solito sentono un legame abbastanza profondo con la propria città. Insomma, chi più, chi meno. Io ad esempio sono nata a Milano, ma credo di non essermi mai sentita milanese nemmeno per un minuto in vita mia, e con Milano ho un rapporto che non riesco davvero a comprendere. Razionalmente so che è la mia città, ma questo che cosa significa? Non ne ho idea, ho la sensazione di essere nata su questa terra e so che Milano ne fa parte, però ammetto che mi piacerebbe sentire quello che evidentemente sentiva Eco per Alessandria.
Perché quindi voglio parlare di amore e di Alessandria? Umberto Eco non c’entra nulla, anche se tanti anni fa ho letto Baudolino – unico libro suo che ho letto, sì lo so, dovrei leggere anche gli altri – e mi è piaciuto davvero tanto. Parlava moltissimo di Alessandria, ma ho detto che Eco non c’entra.
Per me Alessandria è il posto in cui l’amore tra me e Martino è cominciato per davvero, due anni e mezzo fa. In realtà la prima volta in cui ci siamo abbracciati eravamo seduti sugli scogli, davanti al mare. Ricordo che in mezzo a quel primo abbraccio lui tremava, ed era stato strano e bellissimo abbracciarsi per la prima volta.
Però quando ci siamo baciati per la prima volta eravamo ad Alessandria.

– DISSOLVENZA –

L’ho detto che avrei parlato d’amore.

Io a volte mi fisso su certe canzoni. Per la verità è una cosa che mi capita abbastanza spesso, quando ne scopro una che mi piace particolarmente o che per qualche ragione mi colpisce. Nei giorni scorsi ho ascoltato a ripetizione mille volte al giorno “Milk and Honey” di Jackson C. Frank e anche “Cuándo Olvidaré” di C. Tangana, per cui quando inizio la mia esplorazione per le strade di Alessandria ho in testa pezzi di una e dell’altra. Mi fa piacere che mi risuonino nella mente, anche se potrebbero essere viste come dei tarli. Ma sono tarli adorabili, non come quel tarlo della pancetta a cubetti che un anno fa mi era arrivato a tradimento attraverso la mia radio preferita e mi si era piantato in testa per giorni e giorni. Quanto dolore può essere generato da un semplice jingle pubblicitario. Non la comprerò mai la vostra pancetta, sono vegetariana, ma non è questo il punto. Se anche fossi una voracissima divoratrice di pancetta, dopo aver subito la tortura di quella pubblicità mi guarderei bene dal comprare la vostra, avete sbagliato campagna pubblicitaria, sul serio. E se sembra che io stia esagerando, no, non sto esagerando, sto riducendo la questione a una quisquilia di poco conto, perché non amo le esagerazioni. Ma tornando ai tarli “buoni”, sento davvero un senso di piacere nel percepire la differenza sostanziale tra la pubblicità della pancetta e queste due canzoni, tanto piacere che mi viene da sorridere. Tra l’altro, entrambe le canzoni parlano di amori tormentati e di stagioni che si susseguono, e trovo buffa questa coincidenza; sempre che sia una coincidenza: io mi diverto a vedere segni e simbologie un po’ ovunque, ma lo faccio appunto per divertimento, senza troppo impegno. Insomma sempre a livello di pennellata nella mia mente. “Forse non è una coincidenza, forse è tutto collegato” mi dico. E chissà.
Non so precisamente quello che sto andando a cercare ad Alessandria. Ovviamente è qualcosa che riguarda noi due e che riguarda l’amore. Ricordi, segnali, simboli, o illuminazioni. Qualcosa che mi faccia capire qualcos’altro, una visione diversa da un’altra prospettiva.

Dopo una serie quasi infinita di lentissimi giri nell’enorme parcheggio che sta accanto alla stazione dei treni, dove non c’è nemmeno un posto, vedo una ragazza a piedi che mi fa dei cenni. Abbasso il finestrino. Mi dice “sto andando via, sono là!” e mi indica la direzione. La seguo provando un forte senso di gratitudine nei suoi confronti. Prima che salga sulla sua macchina la ringrazio “Sei la mia salvatrice, era mezz’ora che giravo”. E lei mi fa un sorriso. “Figurati,” mi dice “lo so, è un casino trovare parcheggio qui”, e se ne va.

Mi incammino a piedi verso la stazione, ho deciso che la mia esplorazione partirà da lì, perché è da lì che siamo arrivati ad Alessandria io e Martino due anni e mezzo fa.
Tornando un attimo alla questione dei collegamenti simbolici pieni di sensi che non si capiscono, mentre mi incammino verso la stazione sento dolore al coccige, perché qualche giorno fa ho fatto un volo all’indietro cadendo da un piccolo skate rosa con le rotelle luccicanti; non ero mai andata su uno skate in vita mia e una mia giovane amica di nove anni mi ha detto “dai prova, si fa così”. Ho provato, ci ho preso un po’ la mano, e nel giro di due minuti mi sono ritrovata con la schiena a terra e senza fiato, con la stanza intorno a me che all’improvviso era diventata tutta blu scuro. Proprio l’altra sera stavo parlando con un caro amico di quanto fa male sbattere l’osso sacro, e lui diceva che in quarant’anni non gli era mai successo. L’avevo trovato strano: sbattere il coccige almeno una volta nella vita mi sembra del tutto normale, io conosco piuttosto bene quel tipo di dolore; ormai però era da dieci anni che non mi capitava più di sentirlo. Appunto, dieci anni, e qui c’è la coincidenza. Quando Martino e io ci siamo incontrati per la prima volta, il 27 gennaio del 2013 – cioè esattamente 68 anni dopo che le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nell’offensiva Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz – mi faceva male il coccige. Una settimana prima avevo fatto un salto da una specie di impalcatura calcolando abbastanza male le possibilità che avevo di evitare un forte dolore ed ero caduta in maniera piuttosto ridicola sui talloni, finendo con la schiena a terra.
Così, portandomi dietro questa simbolica coincidenza che percepisco nettamente nel mio corpo, varco l’ingresso della stazione. Se non ricordo male, l’ultima volta in cui sono stata alla stazione di Alessandria era proprio due anni e mezzo fa, quando da Genova siamo arrivati qui in treno, quindi immagino che ritrovandomi qui mi arriverà qualche ricordo di quel giorno, qualche segno del nostro passaggio, o qualche simbolo. Guardo anche dentro un cestino per vedere se trovo qualche segnale nella spazzatura. Niente di interessante, niente che mi colpisca in qualche modo. Una lattina di coca cola schiacciata, la plastica di un pacchetto di patatine. Forse cercare i segni di un amore dentro la spazzatura non sarà romantico ma per me tutto è possibile, non interpreto la spazzatura come spazzatura. Sono cose come le altre, fanno parte del mondo come tutto il resto, solo che sono state abbandonate da qualcuno che non le voleva più portare con sé, tutto qui; potrebbero benissimo esserci simboli interessanti anche lì. Invece no.

Faccio qualche passo dentro la stazione, l’atrio è ampio, il pavimento è lucido e chiaro, e nella zona della biglietteria ci sono delle grosse colonne di marmo verde. All’improvviso, in maniera del tutto inaspettata, mi rendo conto del fatto che il ricordo più vivo e forte che sento in quel luogo non è legato a me e Martino che arriviamo lì innamorati, ma alla morte di mio padre. Il 22 novembre 2019, tre giorni dopo averlo visto morire e poche ore dopo aver sparso le sue ceneri sotto un grande olmo in giardino, io e due dei miei tre fratelli, frastornati e tristi, eravamo partiti dalla stazione di Alessandria per tornare ognuno a casa propria. Cercavo simboli d’amore e invece mi è arrivato improvvisamente un ricordo netto e chiaro di morte. Ma si sa che amore e morte sono legati, niente fango, niente loto.
Cerco ancora qualche segno dentro la stazione, ma nulla mi colpisce in modo particolare. Ci sono degli schermi, guardo se trovo qualche indizio tra le immagini che mandano. C’è un TG, parlano della guerra tra Russia e Ucraina, e di carri armati vecchi di sessant’anni. Sto cercando segni d’amore e per ora trovo solo l’opposto: morte, guerra.
D’altra parte ha senso, perché sto camminando dentro la stazione ferroviaria di Alessandria, che il 5 aprile del 1945 – solo venti giorni prima della fine del conflitto in Italia – fu colpita da un bombardamento aereo degli alleati. A quanto pare la stazione era l’unico obiettivo militare di quel bombardamento, che però è rimasto famoso perché fu colpita anche un sacco di altra roba. Ecco la relazione che la divisione partigiana Matteotti “Marengo” fece di quel bombardamento:

“Alle ore 15.20 circa del 5 aprile una formazione consistente di apparecchi da bombardamento anglo-americani compariva nel cielo della città discaricando il loro micidiale carico di bombe. La popolazione, ormai da tempo abituata alle azioni dei cacciabombardieri rapide e veloci ma nel tempo stesso precise, lontana dal pensare che l’azione potesse investire la città, seguiva in gran parte dalle finestre e dalle vie cittadine la formazione aerea. Altro fatto che faceva ritenere la popolazione al sicuro da ogni bombardamento era quello che nella città non esisteva nessun reparto o comando di importanza tale che giustificasse una qualunque azione sull’abitato. È inutile descrivere le scene di strazio verificatesi, lo scompiglio nella vita cittadina, e quanta fiducia persero gli alessandrini verso gli anglo-americani, e quanto materiale inutilmente distrutto. Vi è chi ha perso tutto, e taluni la vita. Ma troppo lungo sarebbe il soffermarci su problemi e questioni di carattere sentimentale, morale e politico, non esclusi quelli a carattere nazionale, che occuperebbero il primo posto. Ci limitiamo dunque a riportare i danni sofferti dalla città e dalla sua innocente popolazione, sicuri che fatti del genere non abbiano mai più a verificarsi. Ed è del resto l’unica forma di violenta protesta che siamo in grado di fare, nello stato di disperata condizione di rovina in cui siamo stati portati forzatamente noi italiani.

– Case completamente rase al suolo: 45
– Appartamenti distrutti o resi inabitabili: 1000
– Cittadini deceduti: 150, e il loro numero è sempre in aumento
– Obiettivi militari colpiti: la stazione ferroviaria, dalla quale non parte più alcun treno.”

Esco dalla stazione, fuori fa abbastanza caldo, c’è il sole, la primavera sta per arrivare ma secondo me è già arrivata, è pieno di piante fiorite ovunque (“Spring is born and wanders free”, mi canta il mio piacevole tarlo Jackson Frank). Attraverso la strada e cammino verso il parco. Un grosso cartello marrone davanti a me dice “Giardino comunale” e vieta una serie di cose, tra cui giocare sul suolo pubblico, raccogliere fiori, transitare sui siti erbosi, dormire e coricarsi sulle panchine, circolare con veicoli in genere; sotto i divieti ci sono poi due obblighi: condurre i cani solo sui camminamenti e conferire i rifiuti negli appositi contenitori. Anche qui non trovo segni del nostro amore, né del nostro passaggio, né mi sembra che ci siano ammonimenti su come dovremmo comportarci in futuro per essere in armonia. Forse conferire i rifiuti negli appositi contenitori può essere un’idea, credo abbia senso, ma quello che noto di più è che il rapporto tra gli abitanti della città e la natura è quantomeno strano. Mi avvicino a una cabina telefonica, ci entro dentro, anche lì non trovo segni, il telefono non squilla e nessuno ha lasciato messaggi per me.

Imposto il navigatore per fare a piedi la stessa strada che abbiamo percorso io e Martino quel giorno e dal parco proseguo verso viale Brigata Ravenna. C’è una rotonda, devo andare a destra, il cartello indica “Quartiere Cristo”. Arrivata sul ponte che passa sopra la ferrovia vedo alla mia destra sulla grata la scritta “ALTA TENSIONE PERICOLO DI MORTE”. Questo potrebbe essere un ammonimento utile, lo accolgo senza esitare, meglio evitare l’alta tensione, certo. Poi, guardando il marciapiede con l’erba e gli alberi capitozzati davanti a me, mi ricordo improvvisamente di questo posto, e torno a quel giorno di due anni e mezzo fa. È una sensazione molto piacevole perché finalmente la mia mente vede un segno di quel giorno. Sento un senso di calore e mi commuovo un po’, questi alberi che vedo lungo il marciapiede mi sono familiari, me li ricordo bene, in questa città che in realtà praticamente non conosco per nulla anche se ha un così grande significato per me. E mentre mi godo questa sensazione di commovente familiarità vedo venire verso di me a piedi un signore che trasporta in spalla delle scope di varie forme, colori e misure. Passando ci incrociamo, io tentenno un po’, gli faccio un sorriso, lui sta per superarmi e proseguire ma poi si ferma e mi chiede se voglio comprare una scopa.
Be’, se non è un segno questo! Devo assolutamente comprare una scopa. Per un attimo mi dico “ma sei scema? Vuoi girare per Alessandria con una scopa?” ma mi rispondo prontamente che sì, vorrei proprio comprarla. E sai che ti dico? Voglio quella di saggina. E poi vado in giro per Alessandria portandomi dietro una scopa di saggina. Che immagine bellissima. E poi credo che questo signore possa avere qualche indizio da darmi.
“Ma sì” gli dico “in effetti mi serve”.
Le macchine continuano a passare veloci accanto a noi, sul ponte. Lui appoggia per terra il contenitore delle scope e una sacca in cui ha altre cose da vendere. Scelgo una scopa normale, non quella di saggina, e mentre gli dico di togliere il bastone mi sento un po’ pavida: andrò in giro per Alessandria con una scopa nella borsa e nessuno se ne accorgerà. Lui è alto e magro, e ha uno sguardo vispo e gentile, con gli occhi che ridono ma che sembrano al contempo pieni di una qualche nostalgia lontana.
“Quanto ti devo?”
“Fai tu, quello che hai” mi dice sorridendo. Ha un accento straniero, ma non capisco di dove possa essere. Pago la scopa e poi ci mettiamo a parlare. E tra una parola e l’altra va a finire che chiacchieriamo per quasi venti minuti, così, su un ponte, con le macchine che ci sfrecciano accanto. Mi racconta che abita a Trino e che gira in vari paesi dei dintorni per vendere le scope. Gli chiedo se la gente gliele compra e mi risponde con un’espressione un po’ afflitta “Eh non tantissimo, faccio fatica, poi il biglietto del treno costa” dice guardando la ferrovia sotto di noi. “È faticoso anche perché sono vecchio, ho sessantasette anni”. Gli dico che non sembra, ne mostra molti meno; in effetti ha un po’ di rughe ma gli avrei dato forse dieci anni in meno. Sorride, dice che lo sa e che glielo dicono in tanti, però lui gli anni se li sente, poi ha anche qualche acciacco, la schiena, cose così. Mi fa un po’ di domande su di me, sulla mia famiglia, se ho fratelli e sorelle, se vivono vicino a me o altrove, poi mi racconta che lui viene dal Marocco e che è venuto in Italia nel 1986. Vive con sua moglie, anche lei marocchina, e ha dieci anni anni meno di lui, mi dice. “L’hai conosciuta qui o in Marocco?” gli chiedo. “In Marocco, e poi ci siamo trasferiti qui insieme. E abbiamo due figli maschi e una femmina. Adesso i figli sono andati a vivere da soli, sono grandi” mi dice. E poi aggiunge sorridendo che lui e sua moglie si amano ancora tanto; gli si illuminano proprio gli occhi mentre lo dice, si vede molto bene che è vero. “E tu sei sposata?” mi chiede. “Fidanzata” gli rispondo. Mi chiede quanti anni ha il mio fidanzato e da quanto tempo stiamo insieme. Gli rispondo e lui fa una faccia. “E che cosa aspettate a sposarvi?” mi dice. Poi mi dice che non è grave che io abbia due anni più di lui, e che se ci amiamo e se lui è bravo, non beve alcol e non fuma, ma soprattutto – ribadisce – se ci amiamo, dovremmo sposarci. Gli sorrido e gli dico che sì, chissà, magari in futuro. Mi chiede ancora se lui non beve, vuole essere sicuro, mi dice sorridendo che mi sta parlando come se fossi sua figlia. Confermo che non beve, e che non bevo nemmeno io. Molte tisane e tè, acqua, succhi di frutta eventualmente, ma niente alcol. Il fatto che non ci siamo sposati continua a sembrargli strano. “Ma non è che ha un’altra?” mi chiede. Gli sorrido, alzo le spalle, gli rispondo che non credo e gli dico che forse in Italia queste faccende funzionano in modo un po’ diverso rispetto al Marocco, e che è normale anche stare insieme senza sposarsi. Annuisce e ripete che infatti l’importante è che ci amiamo e non beviamo alcol. Poi mi chiede se lui è di qui e gli dico che è sardo. “Ah!” mi dice “io sono stato varie volte sia a Cagliari che a Oristano tanti anni fa”. Ok, se per caso avevo dei dubbi sul fatto di poter trovare segni e simboli nella nostra conversazione (e non ne avevo fin dall’inizio), ora è molto chiaro che è tutto collegato. “I sardi sono davvero brave persone” aggiunge, e lo ripete ancora un paio di volte. Gli piacciono tantissimo i sardi, e mi dice che il mio fidanzato deve essere di sicuro una brava persona. Poi si rimette in spalla la sacca con le scope e l’altra borsa e mi tende la mano, mi fa duecento auguri e mi dice che è stato bello parlare con me, io gli dico che per me è stato lo stesso, ci diciamo grazie, ci salutiamo e riprendiamo a camminare, io in una direzione e lui in quella opposta. Nella testa mi parte l’altro tarlo musicale di questi giorni e mi risuonano parole in spagnolo che capisco fino a un certo punto “Pasan los días / El otoño, el invierno y la primavera / Llega el verano, / vida mía, y no te tengo a mi vera”.

Da viale Brigata Ravenna giro in viale Tivoli e poi mi trovo in corso Carlo Marx. Il quartiere Cristo, dove sto camminando, non si chiama così per via di Gesù, che a quanto pare non c’entra nulla, ma perché si trova sulla strada che da Alessandria un tempo portava alla città di Caristo, capitale dei Liguri Statielli che fu attaccata a tradimento dai Romani nel 173 a.C. e poi distrutta. Dove sorgeva Caristo i romani fondarono Acqui Terme, che si potrebbe raggiungere in circa sette ore di cammino partendo da quello che oggi si chiama corso Acqui, a due passi da qui. Gli Statielli, prima di essere sconfitti dai Romani, stavano anche qui ad Alessandria. Poverini, erano rimasti sempre neutrali durante le varie guerre romano-liguri, e quando i Romani attaccarono Caristo, non opposero resistenza. Ne morirono circa 10.000 e quelli che rimasero vivi furono venduti come schiavi.

Cammino lungo corso Carlo Marx e vedo già le tende a cappottina bianche e rosse dell’Hotel Eden.
Fino a poco meno di ottant’anni fa nel punto in cui mi trovo correva un canale artificiale. Si chiamava canale Carlo Alberto – che nome altisonante per un canale – ed era stato costruito nel 1831. Andava a finire nel fiume Tanaro e fu coperto poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Oggi il suo corso è stato deviato, ma scorre ancora sotto le vie della città.

Arrivo davanti all’hotel. È strano essere qui ora. Sto uscendo da questa porta, mentre fuori piove, due anni e mezzo fa. Mi chiudo la porta alle spalle, sono con Martino, siamo di nuovo diretti alla stazione. Mi si confonde un po’ il cervello: il passato non esiste, infatti il passato è presente e allora esiste. Ora fuori c’è il sole, entro e l’ingresso è abbastanza buio. Mi avvicino alla reception, dove sta seduta la signora Anna. Ha l’aria un po’ triste, mi saluta. Ricordo che anche l’altra volta avevo notato che aveva l’aria un po’ triste, ma forse meno rispetto ad ora. La saluto e tento di spiegarle brevemente il mio piano segreto. Non voglio annoiarla con le mie romanticherie, anche perché appunto le mie romanticherie cozzano un po’ con la sua aria triste.
“Vi sposate?” mi chiede d’un tratto, dopo aver capito che le sto parlando di qualcosa che ha a che vedere con l’amore – cioè quello con cui Kenshiro fa esplodere le teste dei nemici, ricordiamo.
“No, no” le spiego “però volevo fare una piccola cosa romantica, una sorpresa”. Si stupisce un po’ quando le dico che si tratta semplicemente di appoggiare una lettera sul letto e mi dice che pensava che volessi fare qualcosa di più eclatante, tipo riempire la stanza di palloncini a forma di cuore o coprire il letto con petali di rosa. Mi dice che altri chiedono cose così. Insomma, la mia romanticheria è un po’ da poveri ma non c’è nessun problema, posso avvisare anche all’ultimo, mi dice, tanto di solito nel fine settimana non c’è mai troppa gente, e una stanza si trova di sicuro. Poi mi guarda e accenna un sorriso, mi dice che si vede che sono innamorata. Io probabilmente arrossisco come se fossi una dodicenne. Mi chiede se anche lui è innamorato, poi mi chiede da quanti anni stiamo insieme. “Eh, quanto vuoi che siano due anni e mezzo!” mi dice dopo aver sentito la mia risposta. “È normale essere ancora innamorati”. Poi mi dice che se passo di nuovo per portare lì la mia letterina probabilmente non troverò lei ma suo genero, di consegnarla a lui. Mi dice che lei sta alla reception poche ore al giorno perché ha problemi di salute, le dico che mi dispiace. Lei precisa che si tratta di depressione, e che si sente molto male perché ha problemi economici e tutto le sembra difficile, la figlia vuole fare di testa sua nella gestione dell’albergo ma andare avanti con così tante tasse da pagare è quasi impossibile. Mi dispiace davvero, si vedeva che aveva l’aria triste ma non pensavo fosse così tanto triste, ed è evidente che non ho modo di consolarla anche se vorrei. Ci salutiamo, esco dall’hotel.

Durante la seconda guerra mondiale Alessandria fu bombardata varie volte. Ci fu un primo bombardamento il 14 agosto 1940; poi, dopo una pausa durata qualche anno, ce ne fu un altro particolarmente cruento il 30 aprile 1944. Era domenica, poco dopo mezzogiorno, e furono colpiti in particolare il quartiere Cristo e il borgo Littorio. Quel giorno morirono 239 persone e furono distrutte moltissime case, palazzi e chiese. Fu colpita anche la cattedrale e fu quasi completamente distrutto il palazzo Trotti Bentivoglio.
“Round and round the burning circle” mi canta nella testa Jackson Frank mentre cerco altri segnali “All the seasons, one, two and three / Autumn comes and then the Winter / Spring is born and wanders free”. Passo accanto a un posto dove sopra a una grossa saracinesca chiusa c’è un’insegna che dice “FUOCHI D’ARTIFICIO”. Non so bene che strada prendere. Forse andrò a cercare il ristorante cinese dove avevamo mangiato quella sera, era qui vicino. Vado avanti lungo corso Carlo Marx ma a un certo punto capisco che devo essermi sbagliata, il ristorante deve essere in una parallela. Preferisco evitare di riaprire google maps e trovarlo da sola. Torno indietro finché non trovo una via con un nome che mi ispira. Marco Polo, sì, ci vado. È una viuzza stretta che porta a corso Acqui. Mi guardo intorno e mi pare di ricordare qualcosa, il ristorante doveva essere da queste parti. E infatti andando avanti ancora un po’ lo trovo. E di nuovo mi si mischiano in testa il passato e il presente – qualsiasi cosa voglia dire passato e qualsiasi cosa voglia dire presente. È esattamente un ristorante cinese qualsiasi, ma è quello. Guardo la porta, mi sposto un po’ per lasciare uscire noi due quella sera. Siamo esattamente lì ma non sappiamo che ci sono anche io. Cerco di non farmi notare, altrimenti potrei modificare il continuum spazio temporale, lo so a memoria “Ritorno al futuro”, bisogna fare tesoro dell’esperienza. Mi commuovo e mi viene da piangere, e mi fa ridere che questo ristorante cinese mi faccia venire da piangere. In effetti ci siamo detti tante volte che non era granché, ma non importa, è ora di pranzo e poi avevo già deciso che avrei mangiato qui, in cerca di qualche segnale. Entro e vedo subito che il tavolo a cui eravamo seduti quella sera è libero, anche se ci sono ancora le tovagliette di qualcuno che è andato via poco fa. Mi siedo lì, ma al posto in cui era seduto Martino, perché se guardassi dalla stessa identica prospettiva di due anni e mezzo fa probabilmente mi perderei qualche utile segnale. Appoggio la borsa – che è abbastanza ingombrante perché tra le altre cose contiene una scopa – sulla sedia davanti a me. La cameriera mi porta il menù, pulisce il tavolo e apparecchia. Mi sembra sempre strano essere servita da qualcuno, non ci sono abituata. Fanno anche cucina giapponese e scelgo degli uramaki vegetariani. Poi vado in bagno. Sopra al lavandino c’è un cartello con scritto “Acqua Forte Scchiaciare Piano Piano!” tra le parole italiane c’è anche una scritta in cinese che suppongo esprima lo stesso concetto. Effettivamente l’acqua, che si aziona con un pedale a terra, ha una notevole pressione. Per fortuna però qui non c’è pericolo di morte ma solo pericolo di doccia fredda involontaria. In ogni caso lo considero un segno: c’è da fare attenzione all’alta tensione e all’alta pressione, ha senso, grazie del consiglio. Torno a sedermi e dopo poco la cameriera mi porta gli uramaki. È piacevole mangiare qualcosa di diverso dal solito, anche se io sono una vera professionista del mangiare sempre le stesse quattro cose senza lamentarmi. Potrei letteralmente andare avanti a pane e acqua per un bel po’, o a birra e noccioline come facevo qualche anno fa. Era una dieta completa: le noccioline avevano le proteine, la birra aveva i carboidrati. Prendo anche un tè caldo, uno dei motivi per cui mi piace mangiare nei ristoranti cinesi è che non considerano strano il fatto che si beva del tè caldo mentre si mangia. Finisco di mangiare il mio cibo diverso dal solito, poi faccio spazio sul tavolo, prendo i fogli e la penna e inizio a scrivere la lettera per Martino. Mentre scrivo mi sembra di essere finita dentro un anime giapponese, per via della colonna sonora, le tipiche canzoncine rilassanti da ristorante. Una mi colpisce più delle altre e chiedo alla cameriera se sa che canzone è. Mi risponde che è musica cinese e poi mi fa vedere sul suo telefono il titolo, in cinese. È difficile che ci capisca qualcosa e che da quello io possa risalire alla canzone, per cui registro l’audio con il telefono, pensando che poi forse in qualche modo potrò capire che canzone è e che cosa dice. Magari ci trovo qualche segno.
Effettivamente poi riesco a risalire al titolo, fischiettando il motivo e chiedendo a google. La canzone si intitola così: 戀人心 ed è cantata da 魏新雨. E parla di amore, di fiumi, di sogni, di nuvole e di nostalgia. E c’è anche qui la primavera, come nelle mie due canzoni-tarlo.
Finisco di scrivere la lettera e mi sento bene, mi piace quello che sto architettando, anche se è da poveri e non ci sono vagonate di palloncini a forma di cuore.


Esco dal ristorante e vado di nuovo all’hotel, dove trovo alla reception tre tizi abbastanza bislacchi che parlano tra loro. Uno di loro mi chiede che cosa mi serve e capisco che deve essere il genero della signora Anna. Gli spiego la faccenda e lui si mette a ridere, ridono anche gli altri due, e rido anche io, non bisogna prendere troppo sul serio la roba romantica, si sa; poi mi dice che non c’è problema e che quando saprò la data gliela dirò. Mi ripete che basta che non sia un giorno in mezzo alla settimana e io confermo che dovrebbe essere venerdì o sabato. Ci salutiamo ed esco, senza sapere di preciso dove andare. Penso che andò a casaccio verso il centro.
A un certo punto mi trovo in via Vincenzo Capriolo, vedo la pista ciclabile e di nuovo mi ricordo precisamente di due anni e mezzo fa, e ancora provo quel senso di strana familiarità. Cammino un po’ per questa strada – che poi per un pezzo è parallela di viale brigata Ravenna, me ne accorgo quando le due strade si uniscono e mi trovo di nuovo sul ponte che passa sopra la ferrovia – e penso che ora non voglio più andare a cercare segni in posti in cui siamo stati insieme, ma in giro a caso in cerca di qualcosa che mi crei qualche collegamento di qualcosa che non so con qualcos’altro che non so. Decido di andare al Duomo, altrimenti detto Cattedrale dei Santi Pietro e Marco.

Cammino lungo via Cavour e continuo a cercare segni, ma non trovo granché. Passo accanto a via Gagliaudo. Lo so che non devo tornare troppo alle bombe della seconda guerra mondiale, ma qui c’è una scuola di suore salesiane, la Casa Maria Ausiliatrice, che fu colpita durante il bombardamento del 5 aprile 1945. Circa trenta bambini che si erano nascosti nel rifugio morirono per soffocamento.
“Quel pomeriggio eravamo a scuola, quando alle 15 sentimmo la sirena del preallarme. Non ci sembrava neanche vero di poter uscire in fretta nella splendida giornata di sole caldo primaverile. Poco tempo prima i genitori di noi della media avevano lasciato una sorta di liberatoria che ci consentiva di abbandonare le aule se l’allarme non era pericoloso, tant’è che con due compagni mi fermai a giocare alla palla nella piazza della prefettura, attigua alla scuola. Le scarse notizie che potevamo avere noi ragazzi lasciavano comunque presagire che la guerra era agli sgoccioli, e non avevamo fretta di tornare a casa: la paura dei lunghi mesi precedenti stava gradatamente scemando. Anche la colonna di automezzi militari parcheggiata sotto le piante della piazza dava l’impressione di uno stanziamento temporaneo, in attesa di battere in ritirata. Passò circa un quarto d’ora, e le sirene lanciarono l’allarme pericoloso, una serie di brevi e sinistri ululati intervallati da altrettante brevi pause. Ci salutammo in fretta e corsi a casa. Il terrificante frastuono del bombardamento mi colse sotto l’androne. Ricordo come in un sogno l’abbraccio di mio padre, accorso per trasportarmi nel rifugio in cantina, senza un’idea precisa di quello che era successo. Un’ora dopo tentai di tornare a scuola per prendere la cartella che avevo lasciato nel banco, ma a pochi metri da via Gagliaudo, armato di tutto punto e in tuta mimetica, mi fermò un noto fascista che mi impedì di proseguire. Lasciai la città in bicicletta, per la vicina Montecastello, e solo qualche giorno dopo venni a sapere di essere un sopravvissuto.”
Così racconta Gianni Coscia nel libro “Vittime dimenticate” di Renzo Penna.


E mentre oltrepasso via Gagliaudo ho sempre in testa Jackson Frank che canta Milk and Honey. “Spring is born and wanders free”, “La primavera è nata e vaga libera”. Era primavera quando bombardarono la scuola che sta a due passi da qui, è primavera adesso, ed era primavera anche quando il povero Jackson Frank, undicenne, si ritrovò coinvolto nell’incendio della scuola elementare che frequentava a Cheektowaga, vicino a Buffalo. Più precisamente era la mattina del 31 marzo 1954; ci fu una forte esplosione nel locale della caldaia e in poco tempo il fuoco si propagò in tutta la scuola. Quindici bambini morirono, e moltissimi altri si ustionarono. Jackson Frank riuscì a uscire dalla scuola tra le fiamme, ustionato per metà del corpo.
E quella fu solo la prima di una serie di sfortune apocalittiche che si abbatterono su di lui durante tutto l’arco della sua dolorosa vita, ma avevo detto che avrei parlato d’amore ed è meglio che con Jackson Frank mi fermi qui.

Attraverso Piazza della Libertà e mi ricordo che di qui eravamo passati due anni e mezzo fa. Io lo tenevo per mano e lo guidavo, lui teneva gli occhi chiusi. Era divertente. Passando accanto a un bar sento la canzone “Depende” degli Jarabe De Palo e mi fermo un istante “Que bonito es el amor
Mas que nunca en Primavera”. 
Giro in via Parma e raggiungo la cattedrale, che da fuori non ha un granché da dirmi. Dentro non c’è nessuno, ma vengo accolta da una musichetta soffusa e soave che arriva da qualche altoparlante. Mi guardo in giro, cerco un po’ ma non trovo particolari segni. Provo a pregare un po’ dio – qualsiasi cosa sia quello che chiamano dio – e accendo una candela. Non sono battezzata, ma mi piace accendere le candele in chiesa, lo faccio spesso. E poi butto lì preghiere a caso, che male non fa.
Saluto dio ed esco, senza sapere bene dove andare.  Tutto sommato, penso, forse quello che dovevo trovare, qualsiasi cosa fosse, l’ho trovato e posso tornare indietro.
Mentre percorro via Cavour nel senso inverso faccio un piccolo tentativo di dare un significato a quello che ho trovato durante la mia esplorazione, ma smetto subito.

Cammino ancora, tornando verso la stazione. In piazza Garibaldi, passando sotto i portici, vedo una zona che colpisce la mia attenzione. Non ricordo se eravamo stati qui, le zone pedonali dei centri storici si assomigliano un po’ tutte, ma forse posso trovare ancora qualcosa. Vado verso piazza Guglielmo Marconi, ci sono degli alberelli e due o tre panchine. E c’è uno spazzino vestito di arancione che sta tirando via un po’ di pattumiera in mezzo all’erba. Ha una bandana in testa, e ha l’aria simpatica, lo guardo mentre con la scopa raccoglie mozziconi di sigaretta e cartacce. Quando torna al suo carretto elettrico e parte imboccando via San Lorenzo decido di seguirlo e lo rincorro; la scopa di saggina che sta appoggiata dietro al carretto è sicuramente un segno. Si ferma all’incrocio con via Bergamo, scende e riprende a spazzare la strada. Io mi guardo in giro e decido di imboccare via Bergamo. In fondo c’è una piccola chiesetta che mi incuriosisce. Fuori c’è un cartello che dice “Chiesa di San Giacomo della Vittoria” e accanto un altro cartello dice “Luoghi del Cuore FAI”. Mentre leggo i cartelli un signore spunta fuori dalla chiesa e mi dice “C’è una mostra di rosari, la vuole vedere?”
Certo che sì.
La chiesa è piccola e bella, decisamente mi piace più del Duomo. Mentre la attraversiamo per andare a vedere i rosari lui si presenta, si chiama Loris, e c’è anche la sorella, Carmen. Quando possono vengono qui per far vedere la mostra; moltissimi di questi rosari, mi spiegano, li ha costruiti lui, mentre molti altri sono antichi. Sono esposti in varie teche appese al muro del corridoio che fiancheggia la chiesa e sono davvero tanti, non ho mai visto tanti rosari tutti insieme in vita mia. Lui abbastanza presto smette di darmi del lei e mi racconta un po’ la storia di questa collezione. La cosa interessante è che è un appassionato di botanica e costruisce rosari con i semi di un’infinità di piante diverse. Me ne fa vedere anche uno fatto con chicchi di caffè. Tra una chiacchiera e l’altra mi invitano anche a casa loro, abitano vicino ad Alessandria e hanno un grande terreno pieno di piante, quelle da cui ricava i semi per i rosari appunto. Poi mi dice anche che ha i semi del guado, il fiore con cui si faceva il blu dei jeans, e un mare di altri semi di piante.
A un certo punto mentre parliamo arriva Carmen lamentandosi del fatto che mentre noi stavamo guardando i rosari qualcuno deve essere entrato in chiesa a rubare le offerte di cibo lasciate lì per i poveri. E, sostiene lei, con ogni probabilità non si tratta di un povero. Io le dico che magari è un povero che si vergogna e che quando passa di lì prende il cibo che trova, senza avvertire. Lei dice di no, che è qualcuno che non ne ha davvero bisogno. Chissà. Poi, mentre camminiamo verso l’uscita della chiesa, mi mostra un affresco del XIV secolo, restaurato di recente. Rappresenta Maria che allatta Gesù, e Carmen mi spiega che è piuttosto raro vedere affreschi così nelle chiese: dopo il Concilio di Trento, Maria a seno scoperto fu considerata troppo osé.
Prima di salutarci ci scambiamo i numeri di telefono e poi usciamo insieme dalla chiesa.
“Fatti rivedere!” mi dice lui.
“Certo!”

E mentre torno indietro verso la stazione penso che è stato molto proficuo seguire lo spazzino con la bandana in testa e la faccia simpatica. A questo punto sento che la mia esplorazione è conclusa, credo di aver trovato i segni che cercavo. Passo di nuovo per il parco comunale dove è vietato fare tutto, costeggio la stazione e torno alla macchina con in testa le mie pennellate casuali e i miei tarli musicali, le esplosioni, l’amore, le scope, gli spazzini e i rosari, mischiando tutto insieme senza avere la pretesa né il desiderio di capirci qualcosa.

化作风 化作雨
化作春 走向你
梦如声 梦如影
梦是遥望的掌印
化作烟 化作泥
化作云 飘向你
思如海 恋如城
思念最遥不可及

你问西湖水
偷走她的几分美
时光一去不再
信誓旦旦留给谁
你问长江水 淘尽心酸的滋味
剩半颗恋人心 唤不回

我們正在經過
像空中的雲
你出生然後你死去

不知怎的 我們偏離得太遠了
像遙遠的星星一樣交流
電話裡支離破碎的聲音
陽光照射下的塵土
飄散著玫瑰的香氣
有人在門後等著

我希望你知道
那就是我的愛是多麼真實
無 言以對我的愛

我得唱歌 我心之歌

化作诗 化作笔
化作灯 写着你
默念著 轻叹著
那些深沉的字句
化作路 化作径
化作情 找寻你
爱一次 梦一 场


Kai Ortolani
Nata a Milano nel 1981. Scrive e ha scritto sceneggiature e racconti. Ha un gatto arancione.