39.8037296,8.5502787 Arborea o dello sguardo alimentare

di Franco Sardo


Da questa esperienza, mi sono portato via un egragopilo, ovvero una palla di mare. La sua forma deliziosamente sferica, la sua dimensione rilevante e la sua consistenza pesante, l’hanno resa un perfetto oggetto del ricordo. Così l’ho mangiata. Si trova ancora in uno degli scomparti della mia auto.

Iniezione

La strada che percorro in auto è una provinciale, con una vegetazione spumeggiante ai lati, verde e coi riflessi azzurri dell’asfalto dissestato. Molto dissestato. Entro nel territorio comunale dall’ingresso in corrispondenza di questa strada provinciale e la prima cosa che percepisco è un sample di fatica, nel percorrere quella strada decisamente rovinata e pericolosa, scomoda. Penso a chi quella strada la vive nel suo loop quotidiano, ne incrocio anche qualche esemplare: dallo stile di guida assunto da ognuno in base alla propria personalità, mi rendo conto di quanto questa striscia di degrado s’imponga come protagonista su di loro. Come un cartello infernale spalmato in profondità, avvisa con la calligrafia delle sue vertiginose crepe della ruvidità che permea quei luoghi, da lasciarsi alle spalle per chi parte e da incontrare per chi arriva. Io, dopo tanto tempo che non c’ero stato, arrivavo ad Arborea.

Per arrivare a camminare ho dovuto guidare. Non è sempre stato così. Non è per forza così. Ma così è stato. La meta del mio vagabondaggio non era raggiungibile a piedi. La condizione particolare forse è dovuta proprio al fatto che io avevo una meta per il mio vagabondaggio, ovvero avevo scelto un luogo dove andare per poi in quel luogo muovermi senza una meta. Può suonare contraddittorio, e questo è liberatorio. Come rendersi conto che in un posto, qualunque posto, ti ci porta una strada e una strada soltanto, non perché solo una lo possa raggiungere, ma una sola è quella che percorriamo. Nessun luogo ha una seconda occasione per fare una buona prima impressione. Nel mio caso la strada esisteva già e in quel luogo c’ero già stato.

Caffè prima di tutto. Potrei serenamente farne a meno. Anzi, a volte il caffè mi agita pure. Il fatto che stessi andando in un luogo col preciso scopo di vagare poi senza meta mi poneva esattamente nella condizione di potermi agitare dopo aver bevuto un caffè. Ma le giornate di molte persone qui cominciano con un caffè e almeno per finta volevo per un momento sentirmi uno di molte persone. Non lo ero per niente: il caffé lo presi che erano già passate le undici del mattino, quando buona parte dei lavori che le persone di quelle parti svolgono sono già giunti al termine. Nel bar le voci avevano già il calore condensato di sforzi compiuti, le facce erano segnate da un sudore rappreso. Arborea è il più grande centro agricolo e di allevamento della Sardegna. L’aria, appena entrati nel suo territorio, odora di letame. Qui si dice sia “fragh’e dinai”, odore di soldi.

Al bancone risulto un avventore un po’ impacciato. Mi guardo attorno per cercare di registrare il più possibile nella mia memoria sollecitata dall’ansia. Potrei descrivere il bar, da cima a fondo, quel giorno. Sintetizzo: ricordo che la luce era stata dipinta del giallo delle pareti rustiche, dove appese si stagliavano stampe d’epoca in mezzo a cartelloni pubblicitari e di eventi passati, sagre. Solito armamentario di ogni esercizio commerciale di servizio e mescita di bevande italiano. Peculiarità prevedibile, l’angolo delle slot machine. Vorrei fare delle foto per immortalare quella normalità, ma sono già un estraneo che in un orario improbabile prende un caffè e un’acqua gassata, ho pure il cappello, si vede che non sto lavorando e mi guardo intorno. Fare delle foto mi sarebbe sembrato troppo. Mentre mi auguro accada qualcosa che consenta un breve e discreto scambio indagatore, bevo, tentenno e pago, arreso e disteso. Mi allontano meno guardato di quanto io stesso pensi, giusto da un uomo in tuta da lavoro, unico con la forza residua per trovare l’interesse verso una stranezza, e rimando a mai la documentazione delle foto appese ai muri, bianche e nere come ossa dissepolte, in cui quel luogo era ancora chiamato col suo antico nome: Mussolinia di Sardegna.

Rilascio

Riprendo la macchina e continuo la strada, nel tentativo di raggiungere il centro della città. D’altronde sto seguendo, almeno così penso, le indicazioni giuste. Sorpresa: arrivo al mare. Di già, penso. La strada mi finisce davanti come se me la fossi bevuta da un bicchiere bucato. Parcheggio e decido così di cominciare la mia escursione dal suo limite geografico: una spiaggia, completamente ricoperta di palle di mare, egragopili.

Da Arborea sono andato e venuto diverse volte per gironzolare ramingo, almeno tre volte a distanza di almeno una settimana l’una dall’altra. Ero nel mese di Dicembre e la cosa dopo la prima volta mi era diventata un’abitudine. Che letteralmente desideravo più mi avvicinavo all’appuntamento, molto spesso il giovedì. Si può dire quindi che il mio è il resoconto di un’esplorazione avvenuta nei giovedì. D’altronde nei momenti ci si arriva dalle occasioni.

Da bambino sono cresciuto in tanti luoghi: in casa, nella scuola, per strada, in casa d’altri, nel parco, in chiesa, in ospedale. In ognuno di questi luoghi, da che io mi ricordi, da bambino io quasi sempre giocavo. E sono cresciuto anche in spiaggia, dove giocavo. Ad Arborea, camminando su quel morbido e bitorzoluto zerbino davanti all’uscio del mare, appena ho potuto, mi sono messo a giocare. C’era un copertone lasciato lì nei pressi a farsi centrare dal Sole, e così, dopo aver finto con me stesso di voler avere un approccio giornalistico a quel momento, mi sono messo a cercare di fare canestro in quel copertone con le palle di mare. Mi è sempre piaciuto come gesto, come performance, l’idea di una mira e di una precisione parabolica, morbida, alternativa alla banalità rettilinea della freccia o dello sparo. L’idea di sorpresa che sottende ad un qualcosa che giunge ma non da davanti né da dietro, bensì dall’alto. Da bambino vicino alla chiesa c’era un campo di calcetto in asfalto sgretolato, fra i miei amici ero quello bravo a fare i pallonetti. Ancora oggi in casa tiro i fazzoletti e i noccioli d’oliva nei cestini da lontano. Una volta allenato, diventa una forma di superpotere che ti consente di risparmiare l’energia di doverti alzare. Quel giorno con le palle di mare feci non meno di una quindicina di tiri da una distanza di qualche metro: li sbagliai tutti.

Oltre alle palle di mare, mi scuso per la ripetizione del termine ma a parte egragopili in italiano non disponiamo di altri sinonimi per alleggerire la ridondanza, non funziona come per gli eschimesi che hanno cinquanta modi di dire neve, che tra l’altro non è vero, o se anche funzionasse io non ne conosco altri. Sicuramente in sardo c’è un termine per le palle di mare, magari ce ne sono cinquanta, ma io non ne so manco uno. Io non parlo per niente sardo. Magari un abitante di Arborea potrebbe usare diversi modi per riferirsi alle palle di mare, magari in sardo o più probabilmente in un altro dialetto. La maggior parte delle famiglie di Arborea hanno origini venete: erano coloni, nel senso più letterale del termine: persone che coltivano la terra in cui vivono. In quel caso in cui sono andati a vivere, perché ce li hanno mandati, gentilmente invitati. Questo è successo ad inizio del secolo scorso, durante il regime fascista, quando sono terminate le operazioni di bonifica di quella che era una gigantesca palude e che hanno reso possibile abitare e coltivare una terra bruna di fecondità. Il colore dei soldi. Il regime si prese il merito che qualcuno eterna di una bonifica progettata e cominciata ben prima. Nei momenti ci si arriva dalle occasioni.

Oltre alle palle di mare, quindi, dicevo, sulla spiaggia era pieno di rifiuti. Vedevo prevalentemente plastiche, sia perché galleggiano e quindi facilmente vengono trasportate dalle correnti, fino a venire riversate sulla sabbia, sia perché sono le forme di inquinamento che potevo vedere. Non ho assaggiato l’acqua di mare, non l’ho nemmeno toccata. Dopo averne raccolto diversi pezzi di varie fogge e dimensioni, me li sono portati via per buttarli, una pratica che trovo di decenza minima in occasioni come quella, con un’auto a disposizione. Mentre mi avvicinavo al parcheggio nel bel mezzo dell’assoluto nulla di quell’ora meridiana sul lungomare deserto di Arborea, passa una macchina della polizia, lenta, come in ronda. Proseguo senza fermarmi, ma mi aspetto che da un momento all’altro mi fermino per togliersi la noia e per giustificare il proprio triste lavoro. Già mi pregusto l’aneddoto che ne potrà sortire. Con me ho infatti anche una palla di mare, un egagropilo, e potevo scommettere che mi avrebbero intimato di non portarlo via. Camminando con le mani ingombre di polimeri salati levigati dall’acqua mi stavo già preparando una risposta convincente. Un po’ deluso raggiungo l’auto senza venire degnato di alcuna particolare attenzione. Quella palla come detto, è ancora nella mia auto, mentre la plastica l’ho tutta buttata nel differenziato.

Metabolismo

Cammino e mi muovo, mi sposto, trovo sentieri che seguo e vado a caso, ma in ogni luogo mi accorgo di questo: il mio è uno sguardo alimentare. Non solo quella prima volta, ma in particolare quella prima volta, nello spazio che ho tentato di lasciare vuoto dalle esigenze, un interesse emergeva di continuo. Non quello di mangiare propriamente, sia chiaro, almeno non nello specifico, ma anche. Ad ogni modo ad ogni passo sentivo la tensione dell’illimitato e perciò subito il mio occhio, e appresso quello la mia mente, si trovava a focalizzarsi su qualcosa. Sì, era quasi ora di pranzo, forse anche quello mi portava all’idea di trovare del cibo, da raccogliere, da portare via. Ma perché del cibo? Perché nell’idea di savagismo naif in cui mi ero calato per farmi bianco al romitaggio, ecco che l’utilità primaria, il bisogno elementare, almeno tra quelli in quel momento irrisolti, visto che non avevo sonno né freddo, era il cibo, qualcosa da ottenere e poi da condividere. L’idea di tornare col cibo da condividere, nella sua performatività, mi apparve così distinta e distintamente mi accorsi di come questo plasmava la mia esperienza quel giorno. Non respinsi questa inclinazione, anzi, la assecondai. L’avevo appena fatto, qualche istante prima, anche con le plastiche.

Vediamo il mondo in base alla sua capacità di contenere e di offrire gli elementi di cui ci sentiamo avere bisogno. Niente di strano: un biologo ungherese dei primi del novecento scrisse un libro meraviglioso proprio su questo. Noi non siamo ciò che mangiamo, l’essere è un qualcosa di troppo divenente per poter essere racchiuso in una scatolina di fiammiferi di linguaggio. Ma forse possiamo piegarci dentro comunque qualcosa: noi vediamo ciò che vogliamo mangiare. Noi vediamo ciò che vogliamo. La cosa interessante è che fra le tante libertà di cui disponiamo, il contenuto della nostra volontà è forse una di quelle che ci sfugge di più. De gustibus non disputandum est, neanche da noi stessi, o comunque molto meno di quanto vorremmo credere.

Lo sguardo alimentare che guida l’esplorazione ha però un altro risvolto, questa volta sociale. Siamo sociali anche e forse di più nella solitudine: noi non nasciamo con l’idea di nutrirci da noi stessi. Nasciamo nutriti da altri e per anni e anni della nostra vita noi concepiamo solo quello. L’autonomia è un costrutto mentale ulteriore, è un qualcosa di ideologico, posticcio. Noi raccogliamo sempre per gli altri, che sono la destinazione di ciò che troviamo. Anche il nostro egoismo è un egoismo dedicato agli altri. Ma questo implica anche: cosa significa tornare a mani vuote? Cosa significa non portare niente agli altri. Cosa significa, giungere da un viaggio, e non portare nulla, se non un bisogno, ulteriore, un ammanco da colmare, un vuoto da riempire, proprio da laddove ci si aspetta invece che arrivi qualcosa. Cosa sarebbe stata la mia esplorazione stessa, se non avessi dovuto estrapolarne dei momenti, raccoglierli, sintetizzarli, assimilarli e poi tradurli in questo testo? Quanto siamo davvero pronti all’idea che l’altro arrivi e non ci porti nulla, neanche se stesso, solo carenza?

Soffermandomi ora su questa domanda, a mesi da quei giorni ad Arborea, posso dire che ricordando di aver cercato funghi da mangiare ho trovato sotto una pineta una strada verso ciò che si dice pietà.

Sviluppo

La pineta di Arborea si estende per quella che sembra una dimensione infinita. Solo, ad interromperla, una serie di strisce vuote, come piste per aerei inesistenti, che la attraversano in diverse direzioni, apparentemente senza senso: sono i tagliafuoco. Come canyon che solcano un deserto vegetale, trasformano l’esperienza di una foresta, uno spazio privo di limite percepito, in un bosco, un luogo già più a misura d’uomo. Immensi, sembrano il percorso di schiacciamento che ha lasciato il passaggio di giganteschi megaliti in mezzo agli alberi. Blocchi monumentali d’aria. Muri di vuoto. Un artista di queste parti ne ha da poco venduto una sua versione contenuta, mi pare un metro cubo, di vuoto. L’evento è stato ovviamente notiziato: non si fa che dire quello già c’è.

La città di Arborea non è una città: è un corpo informe disteso con un unico piccolo ombelico ad umanizzarlo. Il centro è costituito da una piazza, ampia, su cui affacciano la chiesa, lo stadio, il municipio, il ristorante, l’edicola e il tabaccaio. Il resto è periferia a perdita d’occhio, sobborghi e case sparse. Aziende agricole, case aziendali, agricoltura edile. Era il periodo poco prima di Natale, una volta capitai in una sorta di centro commerciale, credo fosse l’Immacolata, al piano terra un mercatino di piccoli artigiani locali, attorno a loro negozi chiusi. Non c’era nessuno, ero l’unico a parte i venditori a girare attorno alle bancarelle, pure un po’ stufato e di corsa. Uscendo vidi un venditore ambulante di ipotetica origine africana su una panchina, di fianco a un borsone pieno delle solite cose. Un anziano presumo locale, proprio mentre passavo, gli chiese, consentendomi di sentire: “Ma tu da quant’è che stai in Italia? E ti trovi bene?” Mi stavo allontanando e mi allontanai.

Di quei giorni ho molte foto, qualche video, molti appunti vocali che ho diligentemente preso, parlando con me stesso via cellulare, autocompiacendomi della dovizia di dettagli che raccoglievo e della descrizione con cui tinteggiavo il paesaggio. Abbastanza vergognoso il fatto che al contrario di molti io non provi repulsione per la mia voce, ma anzi mi piaccia riascoltarmi. Lo faccio praticamente ogni volta invio un messaggio vocale. Mi dico sia per verificare di aver detto tutto quanto avevo intenzione di dire, ma di base è che tendenzialmente mi soddisfa il modo in cui lo dico. Così vado avanti, crogiolandomi assieme al mio stesso spettro del passato. Quando me ne rendo conto mi spavento. Per scrivere questo reportage non ho né rivisto né riascoltato nulla di ciò che mi ero preso. La palla di mare che ho ancora nella macchina ha ceduto parte della sua deliziosa sfericità in favore delle ammaccature dovute al fin troppo giusto scomparto in cui l’ho messa.

Scarto

A un certo punto, nelle ultime occasioni, era diventato un piacere andarsene da Arborea. In quel luogo, che avevo attraversato un po’ in lungo e un po’ in largo, anche con attenzione, ma sempre a termine, evidentemente non avevo raggiunto quella profondità da corpo in caduta che costringe a respirarci dentro come disponesse dell’unica aria dell’universo con la giusta concentrazione d’ossigeno. Nelle ultime visite, in particolare, perlustrando letteralmente con fare quasi poliziottesco le zone residenziali, pur se a minima intensità, percepivo un’estraneità molto presente. Nessuno o quasi per strada, ancora meno a passeggio sui marciapiedi, ma neanche nei cortili o nei giardini, di cui quasi ogni casa disponeva. Ad Arborea che mi risulti praticamente non esistono palazzi. La sensazione di essere fuori posto, lì dove la gente viveva, mi era ancora più fastidiosa pensando a quanto invece avessi vissuto con amniotica complicità l’esplorazione dell’ambiente diciamo più incolto, per capirci. Mentre sentivo tutto questo, mi ricordavo che nonostante tutto questo, quel luogo era ciò che altri chiamavano casa e, ovviamente, così peggioravano le cose. Mi muovevo da solo in casa d’altri. Mi irretiva un pudore introiettato.

L’ultima volta, le giornate erano alla loro durata minima, rimasi fino al tramonto girando per quei viali larghi e placidi, decisamente sovradimensionati rispetto al traffico inesistente, ma forse adatti agli imponenti mezzi agricoli che di tanto in tanto li attraversano. Col Sole appena disciolto nell’orizzonte, dentro un parco c’erano delle persone che addestravano un cane in mezzo a rampe e strutture apposite. Poco più avanti tre ragazzine alla sbarra stavano facendo un video di ginnastica da postare sui social. Passando sentivo che due di loro in tuta stabilivano la coreografia, mentre la terza appallottolata in vestiti ingombranti aveva il compito di riprenderle. Due pischelli in monopattino mi incrociarono un paio di volte, alla fine si fermarono in quel parco e si misero a giocare, con qualcosa o in un modo che io non ho potuto né in alcun modo ho voluto decifrare.

 


Franco Sardo
Principalmente creatore di contenuti testuali, in particolare descrittore, talvolta organizzatore di eventi e da poco ideatore di giochi.